sabato 31 ottobre 2009

Il bambino con il pigiama a righe




Il bambino con il pigiama a righe
Giovanni Pistoia

“Il giorno di Natale, il padre si era presentato nella sua nuova uniforme, quella impeccabile e inamidata che ormai indossava ogni giorno, e tutta la famiglia aveva applaudito il suo ingresso. Era davvero speciale. Si distingueva dagli altri soldati che andavano e venivano per casa e sembrava che tutti, adesso che la indossava, dovessero portargli ancora più rispetto di prima. La madre gli era andata incontro e lo aveva baciato sulla guancia, passando una mano sulla stoffa e commentandone la qualità. Bruno era rimasto impressionato dalla quantità delle decorazioni sull’uniforme e per un po’ gli avevano lasciato indossare il berretto del padre, dopo essersi assicurati che avesse le mani pulite, anche se era meglio che non lo toccasse.
Il nonno si era mostrato molto orgoglioso alla vista del figlio nella nuova uniforme. L’unica che non aveva fatto una piega era stata la nonna. Finita la cena e dopo aver terminato la recita con Gretel e Bruno, la nonna si era seduta sulla sua poltrona con espressione triste e aveva guardato il figlio scuotendo la testa con grande disappunto.”

È, dunque, nel giorno di Natale che l’alto ufficiale nazista, indossando la nuova uniforma, diviene, di fatto, il comandante di un campo di concentramento. Ma cosa significherà tutto ciò sembra non scalfire il papà del comandante e la mamma di Gretel (12 anni) e Bruno (9 anni). I ragazzi vivono la loro stagione rincorrendo le bambole lei, mentre lui sogna di fare l’esploratore e scoprire nuovi mondi. L’unica a rendersi conto che non c’è niente da festeggiare è la mamma del comandante, la nonna di Bruno, il protagonista del racconto.

“Mi chiedo dove ho sbagliato con te”, dice rivolto al figlio. “Forse sono stati tutti gli spettacoli che ti ho fatto recitare da piccolo a ridurti così. Vestirsi come una marionetta appesa ai fili.”

Il bambino con il pigiama a righe” è un racconto di John Boyne, scrittore irlandese, pubblicato nel 2006. Tradotto in più di 30 Paesi, ha venduto milioni di copie in tutto il mondo. Da questo volume è stato tratto l’omonimo film diretto da Mark Herman.
È la storia di Bruno che, improvvisamente, deve lasciare la sua grande casa di Berlino, insieme ai suoi familiari, per andare in un posto lontano con il padre che, per motivi di “lavoro” e per volere del Grande Capo, è chiamato a svolgere un nuovo e delicato incarico. Ma Bruno ignora il posto e il lavoro del padre.

Il racconto è un tentativo, certamente encomiabile, di narrare ai ragazzi il volto della tragedia dei campi di sterminio. Una tragedia vista dagli occhi del figlio del comandante del campo, Bruno, che, però, non sa assolutamente niente e non si accorge di niente.

Stile asciutto, scrittura semplice e scorrevole; il racconto, tuttavia, non convince per più elementi. Trama costruita con qualche forzatura di troppo. Il contesto è indubbiamente doloroso, ma è tale per chi conosce la storia. Il finale, indubbiamente toccante e imprevedibile, può risultare enigmatico per un ragazzino che ignori cosa sia accaduto davvero in quei campi. Un libro che è utile leggere insieme, adulto e ragazzo. Una sana discussione del testo nelle scuole, o nelle biblioteche, può dare voce alle cose non dette dall’autore.


John Boyne
Il bambino con il pigiama a righe
Bur Rizzoli 2009
www.bur.eu

Nelle immagini la copertina del libro e un fotogramma del film (
http://www.ilbambinoconilpigiamaarighe.it/)


giovannipistoia@libero.it

lunedì 26 ottobre 2009

Notizie dalla Fondazione Carmine De Luca


FONDAZIONE CARMINE DE LUCA – ONLUS
BIBLIOTECA DEI BAMBINI E RAGAZZI
Palazzo Zagara- Corigliano Scalo

Autunno: cadono le foglie.
Noi raccogliamo e consegniamo libri.
Per leggere. E continuare a volare.

ORARI:

Lunedì
dalle ore 9.00 alle 11.30

Mercoledì
Dalle ore 17.00 alle 19.00

Giovedì
dalle ore 16.00 alle 20.00


LETTURE IN BIBLIOTECA

PRESTITO LIBRI

RESTITUZIONI LIBRI ( vanno restituiti entro quindici giorni)

INCONTRO TRA I COLLABORATORI E GLI AMICI DELLA BIBLIOTECA

Le visite delle scuole vanno sempre concordate.

Quanti vorranno dare un proprio contributo volontario alle attività della Fondazione e della Biblioteca sono invitati a partecipare.

Vuoi contribuire pure tu a sostenere la Fondazione Carmine De Luca e le sue iniziative?
Vuoi contribuire a migliorare il servizio della biblioteca dei bambini e ragazzi?

Elargisci un contributo volontario intestato a:
Fondazione Carmine De Luca – Onlus – Corigliano Calabro (CS)
Coordinate bancarie: ABI 8892 CAB 80690 C/C 561389
Codice IBAN: IT 29 B 08892 80690 000000561389

Se sei un Autore, Editore, Libraio puoi inviare dei libri: sono graditissimi

Sede:
Fondazione Carmine De Luca – onlus
Biblioteca dei bambini e ragazzi
Palazzo Zagara
Via Provinciale, s.n.
87065 Corigliano Calabro Scalo

Indirizzo postale:
Fondazione Carmine De Luca
Casella Postale n. 20
87065 Corigliano Scalo (CS)

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360.52.52.25

PER UN PROGETTO CULTURALE DELLA POLITICA

PER UN PROGETTO CULTURALE DELLA POLITICA
Giovanni Pistoia


Mi chiedo: quale ruolo può avere il cittadino nei confronti dell’Ente locale nel nostro territorio? L’Ente locale è tenuto in scarsa considerazione. Lo stesso cittadino si sente tradito, abbandonato, mortificato. Avverte di sentirsi privato della propria dignità.
È necessario, quindi, invertire questa tendenza, che contribuisce al disfacimento del tessuto sociale. Lavorare, dunque, per ridare onorabilità, dignità, autorevolezza, sovranità all’Ente locale significa anche lavorare per riaccendere quell’indispensabile orgoglio di sentirsi parte integrante di un processo teso a ricercare e rilanciare occasioni di sviluppo, di crescita morale, civile, culturale ed economica della comunità alla quale si appartiene. Avviarsi, in sintesi, al superamento del “cliente demotivato” e procedere verso il “cittadino responsabile”.

I nostri paesi sembrano in ginocchio, rassegnati al declino, senza prospettive. È indispensabile cercare alleati, energie, uomini e donne, giovani, perché questi paesi si mettano in cammino, riacquistino fiducia, abbiano prospettive di lavoro, di civiltà, di democrazia. In sostanza, un futuro.
In questo contesto, al cittadino spettano grandi e responsabili ruoli. Ruoli di vigilanza, di controllo, di denuncia, ma anche l’impegnativo ruolo di farsi carico del governo della città.
Il cittadino, attraverso i partiti ripuliti, le associazioni, le varie e diverse forme di aggregazione, può essere il protagonista di progetti di costruzione di alleanze tra forze politiche democratiche, progressiste, singoli soggetti politici, rigorosamente orientati a lavorare per la collettività.
È possibile e auspicabile che dalla società possa emergere una proposta operativa tesa ad elaborare un progetto, ideale prima che materiale, per dar luogo ad una nuova fase costituente per questi nostri paesi, perché di ciò essenzialmente hanno bisogno le nostre città.
E per far ciò non si può non ipotizzare una pedagogia del vivere civile. Credo, infatti, che sia indispensabile un’opera educatrice della comunità per la comunità. Bisogna educare alla comunità. È essenziale, indispensabile, vitale, una pedagogia del vivere civile. Senza quest’opera, che non può non partire dai banchi della scuola, continueremo ad avere una cultura egoistica, tutt’al più da condominio. E, invece, dobbiamo avvertire l’esigenza di sentirci compartecipi della comunità nella quale viviamo e operiamo. Dall’attuale cultura solipsistica può derivarne il “cliente” e giammai il “cittadino”.

Una città vivibile si costruisce con i cittadini consapevoli e non con il vociare questuanti dei “clienti” o demandando a sindaci taumaturghi impossibili miracoli. Si costruisce anche e soprattutto cercando quella “via” giusta che porti alla ricerca del “buon governo”. Si costruisce partendo dallo studio e dalla conoscenza della realtà: solo così si potrà intervenire con efficacia e con cognizione di causa. Spesso la soluzione ottimale sta dentro una ottima diagnosi.

E qui mi si lasci parlare con un esempio tratto dalla mia brevissima e tormentata esperienza amministrativa di sindaco di un centro tra i più angustiati del Mezzogiorno, Corigliano Calabro.
Mi si chiede, spesso, cosa abbia impedito di governare in quella consiliatura, e se la conflittualità tra partiti e/o uomini abbia avuto un peso rilevante così come comunemente si crede.
Nel caso della mia esperienza la conflittualità ha avuto un peso via via sempre più forte, ma la causa vera, che ha dato origine anche alla conflittualità, è stata la divergenza, latente ancora prima che manifesta, sulle scelte di carattere prioritario. Non è stato tanto la conflittualità che ha impedito di lavorare così come si voleva ma la carenza di analisi reali delle condizioni del paese, e la conseguente scelta delle priorità degli interventi, nonché i metodi della gestione, che non sono da considerare disgiunti dai contenuti del governo stesso.
Quasi sempre gli esecutivi dei nostri paesi, per venire incontro alle richieste quotidiane e sacrosante della gente, si sono rassegnati alla logica della sopravvivenza, si sono indeboliti nell’affrontare il quotidiano, si sono immiseriti nella vecchia politica-tampone. Ma questa fatica non poteva ottenere risultati positivi, perché da noi le cause dei quotidiani disservizi hanno radici antiche e malformazioni congenite.

Sono convinto che bisogna aggredire i veri problemi “a monte”. Solo così si possono non dico azzerare i problemi ma ricondurli ad un’ordinaria gestione, e non viverli come eterne emergenze.
Il momento del coraggio. Coraggio di avviare una politica che tenda ad azzerare i problemi. E’ pura miopia perseguire comportamenti politici capaci solo di recare fittizi ed aleatori benefici, occultando gli effettivi problemi che per decenni hanno sonnecchiato in maniera più o meno latente sotto le ceneri di un artificioso e rovinoso benessere.
Cercare di azzerare i problemi, nel significato appena accennato, significa, appunto, avere coraggio. Ma non solo: si tratta anche di avere capacità e lungimiranza politica e amministrativa, molto raramente riscontrata nelle classi dirigenti meridionali.
Significa tagliare la pianta alla radice quando se ne ravvede la necessità, interrompendo una scialba e inutile esistenza o, meglio ancora, mettendo fine alla sua agonia, per impegnarsi, invece, nel seminare in maniera razionale e produttiva secondo la logica di una progettualità di medio e lungo termine. Fare ciò significa compiere scelte dolorose, quasi sempre impopolari. Si tratta, purtroppo, di promuovere una politica amministrativa che necessariamente scontenti fasce consistenti della popolazione oltre che colpire interessi consolidati nel tempo, ma che finisce, e non è un paradosso, per soddisfare le esigenze del paese, della comunità intesa in senso generale.
Un lavoro di regolamentazione della vita dell’Ente con ricadute non immediate sulla vita dei singoli cittadini, spesso compiute apparentemente in contrasto con le attese della gente, che vuole, invece, vedere fatti nuovi, visibili e immediati.
Ma dobbiamo convincerci, una buona volta, che un Comune che non dà regole certe, che non istituzionalizza i propri comportamenti, che non affondi il bisturi alla radice delle piaghe, non può che andare, inevitabilmente, verso il degrado. Questo non è pessimismo, è semplice lettura degli eventi.

Ho una mia profonda convinzione: solo la disperata, tenace, cocciuta ricerca di nuove rigorose e chiare regole del vivere civile può essere la direttrice di marcia per salvare i nostri paesi, paesi degradati nell’ambiente e nelle coscienze, moralmente a pezzi, dove spesso il bene collettivo è visto e valutato in modo sprezzante. Da questa convinzione può derivare quella tensione morale e ideologica, quella spinta progettuale e ideale, razionale e appassionata, rigorosa e entusiastica necessaria per poter credere ancora che è possibile modificare le realtà che ci circondano e che ci condizionano negativamente e, di conseguenza, lavorare per cause giuste ed esplorare nuovi sentieri.

Regole da rispettare, e da far rispettare, dunque, in un contesto che vede la comunità impegnata contestualmente in una decisa opera di autoeducazione a un sano comportamento del vivere civile.
Alle domande “Quali volti devono avere gli amministratori degli enti locali?”, “A quali canoni di comportamento devono rispondere?”, non credo che si possa dire niente di nuovo o di diverso dalle aspettative della gente sul “volto” che devono avere i sindaci e amministratori delle nostre città; ma è ovvio che il discorso può valere anche per quanti siano o saranno impegnati in varie istanze istituzionali.
Essi devono incarnare i valori della trasparenza e della moralità e avere, quindi, quella credibilità necessaria e indispensabile per affrontare con efficacia e determinazione i numerosi problemi che negano un giusto decollo alle nostre comunità. Un politico, un amministratore, un dirigente pubblico che non abbia questi requisiti minimi rappresenta un danno enorme per i rapporti tra Cittadino e Istituzione.

Non si deve dimenticare, e neanche per un istante, che i nostri territori perdono respiro sotto i colpi della delinquenza organizzata e non, e a causa, inoltre, di una diffusissima cultura della illegalità che si registra attraverso il comportamento dei cittadini.
La nostra è una società ampiamente illegale: gli amministratori, quindi, se da un lato si dovranno scontrare in maniera aperta con la criminalità, dall’altro, attraverso una corretta ordinaria amministrazione, dovranno assolutamente garantire l’applicazione delle leggi.
Il ripristino dell’ordine pubblico – che può avvenire se lo Stato, nelle sue varie articolazioni, vorrà impegnarsi seriamente (e su ciò nutro, al momento, grandi perplessità) – ed il recupero, o meglio, l’avvio della cultura della legalità, potranno, pertanto, essere sollecitati soltanto da figure integerrime, rigorose, dotate di coraggio e di vivo senso di responsabilità, oltre che di grande sensibilità.
Ma anche tutto ciò a nulla servirà se le nostre popolazioni non prenderanno finalmente coscienza che il bene della collettività non può essere delegato a nessun taumaturgo.

Mi sia consentito di precisare che cosa intendo dire quando uso l’espressione “società ampiamente illegale”. Credo si tratti di un altro importante nodo sul quale bisogna insistere per poterlo dipanare.
Non esiste, penso, un “palazzo” del potere, sia esso il Comune, la Regione, il Governo, ecc. dove si può annidare, e spesso è avvenuto, un potere corrotto e corruttore e, dall’altra, una società esterna al “palazzo”, invece, dall’anima candida, tutta ligia al dovere, rispettosa delle leggi e delle regole. Se questo fosse vero non avremmo, credo, “pezzi di santuari” del potere in tante aule giudiziarie.

“Se i santuari – affermò, un giorno, un autorevole magistrato – hanno avuto spazio e durata è perché si sono retti sulla complicità popolare, favorendone così l’immagine di una politica affrancata al degrado, alla corruzione e ad intrecci fra malavita organizzata e gestione dei pubblici poteri. Se crolla la base, cioè l’impostazione controversa dei concetti di mal governabilità, i santuari non esisteranno più… Dopo tutto i santuari sono lo specchio di noi stessi. Se esistono è perché noi li vogliamo”.

Possono anche essere opinabili queste affermazioni, ma non vi è dubbio che vi è stata e, forse, vi è ancora, una saldatura tra atti illegali o illegittimi consumati nel “palazzo” e parte della società cosiddetta “civile”. Se voliamo un po’ in basso ci accorgeremo di quanta illegalità o di quanti atti ed azioni illegittime è permeato il contesto che ci circonda. Se l’automobilista non rispetta la segnaletica commette un reato; se il vigile vede l’infrazione e non interviene si compie un altro reato; se, invece, viene redatto regolare verbale e la contravvenzione resta nei cassetti di qualche ufficio o viene “stracciata” si compiono altri reati. Se un cittadino titolare di concessione edilizia non paga gli oneri previsti dalle leggi in materia o non esegue il progetto così come da concessione a firma del sindaco o non rispetta le convenzioni sottoscritte o gli atti conseguenti o gli impegni assunti commette reati vari e di diversa natura; se il tecnico comunale non vigila attentamente o fa finta di non sapere e di non vedere o è chiaramente un “colluso” e compie reati; se l’amministratore di turno non interviene per imporre il rispetto delle leggi compie reati, e così via.
Se l’impiegato nelle ore di servizio è al mercato, compie reati; se il docente nelle ore di lezione lascia la classe e va a giocare al ping-pong al bar vicino, compie reati. Se il cittadino allaccia senza autorizzazione alcuna alla rete idrica o fognante, se occupa spazi demaniali abusivamente, se costruisce manufatti edilizi senza concessione alcuna, se recinge, senza autorizzazione alcuna, spazi pubblici trasformando gli spazi ad uso privato, ecc., compie reati, gravi o meno gravi.
E di esempi come questi, più o meno rilevanti, tratti dalle esperienze quotidiane, abbondantemente consumati sotto gli occhi di amministratori e cittadini, se ne potrebbero fare a volontà.
Dire, quindi, che la “società civile” è permeata largamente di atti penalmente e civilmente condannabili e che viviamo in un contesto con fasce considerevoli di illegalità non mi pare affermare delle eresie né voler stravolgere la realtà.
Né vale a giustificazione di un certo illecito commesso che è poca cosa rispetto ad altri. Certo, c’è sempre un reato più grave di un altro: la contravvenzione per un’auto in sosta è indubbiamente meno grave del furto dell’auto, il furto è considerato meno pericoloso di un omicidio, e così via. Quello che qui interessa sottolineare è che quando i delitti, più o meno gravi, sono così diffusi in un corpo sociale è evidente che il corretto vivere civile è fortemente messo alla prova e che la qualità della vita ne risente in maniera evidente. E un tessuto sociale intriso di normale illegalità è certamente più permeabile alla penetrazione della cosiddetta grande criminalità organizzata.

Ricondurre le azioni degli amministratori pubblici, e quelle delle popolazioni amministrate, entro rigorosi canoni legali, è il compito prioritario, davvero nuovo, di una classe politica, che intende definirsi nuova e che desidera porsi, con autorevolezza, come classe politica dirigente moderna.
Il “vecchio” e il “nuovo” di una classe dirigente sta soprattutto nei diversi metodi della gestione della cosa pubblica, nella definizione e, soprattutto, nei comportamenti, di e per una diversa visione della politica. Insomma, discontinuità culturale, vera, autentica.
Rifiuto e rottura netta verso un sistema di potere che continua a sancire un’inaccettabile arretratezza delle realtà calabresi e meridionali. Un progetto culturale prima ancora che politico, anzi un progetto culturale della politica.
Da ciò, credo, bisogna partire se vogliamo davvero traghettare i nostri paesi verso una nuova società.

sabato 24 ottobre 2009

Perché Dio creò la Calabria

Dedicato a
Pierino Cimino


Caro Pierino,
stavo scrivendo il raccontino che segue quando mi è giunta la notizia che tu ci avevi lasciato. Non sempre si muore all’improvviso. Si può morire poco a poco. E anche la tua morte, per tanti, ha portato via un pezzetto della propria. A me è capitato così. Non mi va di aggiungere altro. Del resto tu eri sempre sorridente, anche quando ti incavolavi nero. A tal proposito, mi permetto di dirti: se dovessi incontrare il Padreterno, non prendertela con Lui per i nostri malanni. La responsabilità è tutta nostra. E tu lo sai. Sono certo, comunque, che t’inventerai qualcosa per stimolare un Suo divino intervento. Ne abbiamo tutti bisogno.
Dedico a te questo scritto.
Sappi che continuerò a fermarmi al tuo bar. Lì, seguiterò a vederti. Sempre.


Perché Dio creò la Calabria
Giovanni Pistoia


Lo scrittore: “Dio, Eccellenza, mi scusi… ”

E Dio, interrompendo colui che sarebbe diventato un bravo scrittore calabrese, Leonida Repaci, disse: “Dammi del tu, l’eccellenza, poi, riservala ai cardinali e alle autorità …”

Lo scrittore: “Cosa sono i cardinali… ”

Dio: “Lascia stare, lo scoprirai quando verrà il giorno in cui tu sarai un cittadino del mondo… Ci vuole ancora tanto tempo. Che cosa stavi per chiedermi?”

Lo scrittore: “Dio, ora che hai finito la tua opera creativa, cosa farai con questi quindicimila chilometri quadrati di argilla?”

Dio: “Penso che con questa creta io possa modellare un paese per due milioni di abitanti al massimo: è un’argilla verde con riflessi viola. Verrà un’opera bellissima. Farò, con questo materiale, un capolavoro.”

E il Signore sembrò estraniarsi. La sua tensione creativa era al massimo. E lo scrittore rimase in silenzio ad ammirarlo. Da quelle mani divine l’impasto di argilla prese forma e agli occhi esterrefatti di Leonida apparve un disegno simile a un piede umano che si bagnava per tre parti nel mare. Visto da lassù, da quella nuvola rosa, era splendido.

Disse lo scrittore: “Cos’è?”

Dio: “Quella sarà, un giorno, la tua terra, la Calabria, e tu racconterai di questo evento ai calabresi e al mondo. La Calabria è più bella della California e delle Hawaii, più bella della Costa Azzurra e degli arcipelaghi giapponesi.”

Lo scrittore: “Non stai esagerando?”

Dio: “E perché dovrei?”

Lo scrittore: “Quello sarà il mio paese?”

Dio: “Un giorno del 1898 tu nascerai a Palmi, una cittadina di Reggio Calabria. E, tra le tante cose che farai, descriverai, e lo farai bene, quello che stai vedendo in questo momento. Intitolerai così il tuo brano: Quando fu il giorno della Calabria. Perché se qualcuno si domanderà perché mai ho voluto creare anche questo lembo di terra in un mondo così vasto, tutti sapranno darsi una risposta.”

Lo scrittore: “Vedo tanti agglomerati di case, campagne, montagne, colline, dimmi qualcosa in più. Cosa metterai laggiù, in quella terra che sembra adagiarsi sulle acque… ”

Dio: “Hai ragione. Completo il mio dipinto. Dono alla Sila il pino, all’Aspromonte l’ulivo, a Reggio il bergamotto, allo stretto il pescespada, a Scilla le sirene, a Chianalea le palafitte, a Bagnara i pergolati, a Palmi il fico, alla Pietrosa la rondine marina, a Gioia l’olio, a Cirò il vino, a Rosarno l’arancio, a Nicotera il fico d’India, a Pizzo il Tonno, a Vibo il fiore, a Tirolo le belle donne, al Mesima la quercia, al Busento la tomba del re barbaro, all’Amendolea le cicale, al Crati l’acqua lunga, allo scoglio il lichene, alla roccia l’oleastro, alle montagne il canto del pastore errante da uno stazzo all’altro, al greppo la ginestra, alle piane la vigna, alle spiagge la solitudine, all’onda il riflesso del sole.”

Lo scrittore: “Ma è tutto?”

Dio: “Assolutamente no. Dono a Cosenza l’Accademia, a Tropea il vescovo, a San Giovanni in Fiore il telaio a mano, a Catanzaro il damasco, ad Antonimina il fango medicante, ad Agnana la lignite, a Bivongi le Acque Sante, a Pazzano la pirite, a Galatro il solfato, a Villa San Giovanni la seta greggia, a Belmonte il marmo verde… ”

Dio sospirò un istante. Dall’alto della nuvola rosa diede uno sguardo al mondo. Guardò Leonida con tenerezza che subito chiese: “Ora il lavoro è davvero completo?”

Dio: “Eh no, figliolo! Voglio dare ai calabresi il sapere, la conoscenza, la cultura. Assegno, dunque, a Crotone Pitagora, Orfeo, Democede, Alcmeone, Aristeo, Filolao, Zaleuco a Locri, Ibico a Reggio, Clearco pure a Reggio, e pure Glauco, Cassiodo a Squillace, San Nilo a Rossano, Gioacchino da Fiore a Celico, Fra Barlaam a Seminara, San Francesco a Paola, Telesio a Cosenza, il Parrasio pure a Cosenza, il Gravina a Roggiano, Campanella a Stilo, Padula ad Acri, Mattia Preti a Taverna, Galluppi a Tropea, Gemelli-Careri a Taurianova, Alvaro a San Luca, Calogero a Melicuccà, Manfroce a Palmi, Cilea a Palmi… ”

Lo scrittore: “A Palmi?”

Dio: “Assegno a Palmi Leonida Repaci… scrittore e giornalista brillante che ebbe la fortuna di intervistare Dio in persona…”

Leonida sorrise un po’ e si schernì, mentre Dio sembrava prendersi gioco di lui.

Lo scrittore: “Spero che adesso la creazione sia finita, altrimenti non ricorderò tutte queste cose per il mio racconto… ”

Dio: “Scherzi? Siamo appena agli inizi. Dono a Stilo la Cattolica, a Rossano il Patirion, ancora a Rossano l’Evangelario Purpureo, a San Marco Argentano la Torre Normanna, a Locri il Pinakes, ancora a Locri il Santuario di Persefone, a Santa Severina il Battistero, a Rotonda, a Squillace il Tempio della Roccelletta, a Cosenza la Cattedrale, a Gerace pure la Cattedrale, a Crotone il Tempio di Hera Lacinia, a Mileto la Basilica della Trinità, a Santa Eufemia Lamezia l’Abbaziale, a Tropea il Duomo, a San Giovanni in Fiore la Badia Florense, a Vibo la Chiesa di San Michele, a Mileto la Zecca, a Nicotera il Castello, a Reggio il Tempio di Artemide Facellide, a Spezzano Albanese la necropoli della prima età del ferro.”

Lo scrittore: “Signore, ti prego… non riesco più a prendere appunti. Sono tante le cose che vuoi dare a questa terra. Perché?”

Dio: “Voglio che sia la mia creatura prediletta. Per gli appunti non preoccuparti più di tanto, quando verrà il tuo giorno, sarai tu stesso che vedrai la Calabria e ti ricorderai di questo colloquio. Ora distribuirò i mesi e le stagioni.”

Lo scrittore: “Ma i mesi e le stagioni non sono uguali a quelli dati agli altri paesi?”

Dio: “No. Per l’inverno concedo alla Calabria il sole, per la primavera il sole, per l’estate il sole, per l’autunno il sole. Voglio che sia il sole a riscaldare e illuminare questa terra. A gennaio voglio dare la castagna, a febbraio la pignolata, a marzo la ricotta, ad aprile la focaccia, a maggio il pescespada, a giugno la ciliegia, a luglio il fico melanzano, ad agosto lo zibibbo, a settembre il ficodindia, a ottobre la mostarda, a novembre la noce, a dicembre l’arancia. Voglio ancora che le madri siano tenere, le mogli coraggiose, le figlie contegnose, i figli immaginosi, gli uomini autorevoli, i vecchi rispettati, i mendicanti protetti, gl’infelici aiutati, le persone fiere leali, socievoli ed ospitali, le bestie amate.”

Lo scrittore: “Vedo che questo dipinto è completo. Vedo tanto colore… ”

Dio: “Non è ancora completo. Il mare in Calabria sarà sempre viola, la rosa sboccerà anche a dicembre, il cielo sarà sempre terso, le campagne saranno fertili, le messi abbondanti. Il clima sarà mite, inebriante il profumo delle erbe.”

Dio osservò nei particolari l’opera compiuta. Era davvero soddisfatto della sua creatura. Leonida vide il Signore che prelevò da un bosco una quercia ombrosa, la sistemò in una piega della nuvola rosa, si sedette ai suoi piedi e un dolce sonno lo avvolse.

Lo scrittore restò a guardare la fatica del Creatore. Da un pugno d’argilla aveva tratto uno splendore. Leonida, quasi inconsapevolmente, si ritrovò disteso sotto il ramo della grande quercia, e si assopì.

Lontano dalla nuvola rosa, qualcuno, che ne cavalcava una nera, si accorse del riposo di Dio.

“Adesso, vi faccio vedere di che pasta sono fatto io”, disse il diavolo, un essere che non sopportava il Signore. Guardò la Calabria e assegnò a essa tante calamità: le dominazioni, i terremoti, la malaria, il latifondo, il feudalesimo, le fiumare, le alluvioni, la peronospora, la siccità, la mosca olearia, l’analfabetismo, il punto d’onore, la gelosia, l’onorata società, la vendetta, l’omertà, la falsa testimonianza, la miseria, l’emigrazione.
E come se non bastasse tutto ciò, esclamò beffardo: “E avrai tante di quelle necessità e bisogni che ti stancheranno per l’eternità: avrai bisogno di giustizia, di libertà, del nuovo e del meglio che non conquisterai.” Dette l’ultimo sguardo a quel dipinto di Dio, ora fortemente compromesso, e tutto soddisfatto se ne andò gorgheggiando una canzone volgare, mentre s’incuneava tra le increspature della nuvola nera, che si allontanò velocemente.

Quando Dio riaprì gli occhi, volse il suo sguardo in quel punto lontano dell’universo, per ammirare, ancora una volta, il suo ultimo capolavoro.

Leonida vide il Signore impietrito sulla punta più alta della nuvola rosa. Lo vide sconvolto, come non mai. Guardò la Calabria e fece fatica a riconoscerla. Quella meravigliosa creatura uscita dalle mani di Dio era stata lacerata, vilipesa. Vide sul volto di Dio una collera sconosciuta. Lo vide alzare una mano che divenne lunga, lunghissima. Una mano che strappò dal nascondiglio il diavolo, lo strinse con forza inaudita e con veemenza scaraventò l’immonda creatura nei profondi abissi del cielo. Restò muto, Dio, chissà per quanto tempo, a fissare la Calabria. Era fin troppo evidente la sua sofferenza. Poi pronunciò una frase, per Leonida incomprensibile: “Utta a fa juornu c’a notti è fatta.”

Leonida non osò avvicinarsi al Signore. Avrebbe voluto chiedergli tante cose, a cominciare da quella strana espressione, ma tacque. Dio si volse. Guardò il volto esterrefatto di Leonida e disse: “Non è possibile distrarsi un attimo. Il Maligno ha approfittato del mio sonno per rovinare il capolavoro che avevo fatto. Questi mali e questi bisogni sono ormai scatenati e debbono seguire la loro parabola. Ma essi non impediranno alla Calabria di essere, un giorno, come io l’ho voluta. La sua felicità sarà raggiunta con più sudore, ecco tutto. I guasti sono ormai fatti, la notte sta attraversando la Calabria, bisogna fare in fretta perché arrivi il giorno.”

E lo scrittore: “Vuoi dire che la notte contiene gli albori del giorno?”

Dio: “È così. Prima i calabresi usciranno dal tunnel della notte, prima vedranno la luce.”


Nel tempo si è verificato, probabilmente, qualche imprevisto. Si è constatato che il buio della notte tarda a dileguarsi e, anche quando sembra che qualche stella cominci a rischiarare un cielo troppo scuro, l’alba si fa più lontana. E, invano, si attende il canto del gallo.

Si è verificato che non pochi uomini, anche calabresi, siano diventati diavoli-uomini, sostituendo quel maledetto che fu inabissato nei cieli.

E così, quando qualche vecchio guasto è riparato, subito se ne presenta un altro, e, poi, un altro ancora. Dalla Calabria, assetata di libertà, giustizia, diritti, lavoro dignitoso, molti vogliono andare via. Altri, invece, vogliono restare, altri ancora desidererebbero ritornare per dare il proprio contributo, perché si realizzi un reale cambiamento.

Ma i diavoli-uomini sono forti: corteggiati, adulati, tollerati. E loro, ben vestiti e profumati, gioiscono per il malaffare che procurano alla Calabria, per i veleni che fanno galleggiare nei mari, per le sostanze tossiche con le quali accolgono i ragazzi nelle scuole, per le strade di cartone che costruiscono, per le colline che sbancano, per i bambini che uccidono mentre giocano…

La società calabrese, che vuole accendere i riflettori per illuminare la regione, ha un piccolo-grande problema: non sa dove sono nascosti gli interruttori. Probabilmente alcuni pulsanti sono coperti da specchi. Se la società riuscisse a guardarsi, con onestà, in quegli specchi, ne trarrebbe belle conseguenze. E non pochi di quegli interruttori darebbero la giusta luce.

giovedì 8 ottobre 2009

Il testamento spirituale di Marilena Amerise

Il testamento spirituale di Marilena Amerise
Giovanni Pistoia


“Il Sole 24 Ore” di domenica 30 agosto 2009 ha ospitato un puntuale articolo di mons. Gianfranco Ravasi, Voci dall’Oriente cristiano, su alcuni nuovi studi per conoscere i grandi padri della Chiesa. Si tratta di saggi che non interessano solo gli studiosi di patristica, ma che aiutano a comprendere anche il mondo di oggi, dove culture, tradizioni, storie, religioni si incontrano, si intrecciano, interagiscono, configgono. Un tuffo in alcune pagine della storia culturale del mondo arabo e cristiano, per esempio, ci aiuta a capire tanti misteri quotidiani. Non solo: studi che affrontano temi che non hanno tempo né spazi precostituiti, quesiti filosofici, esistenziali.

Ravasi, nell’articolo citato, si sofferma sui discorsi di Isacco di Ninive, sulla biografia di Cipriano di Cartagine, su Gregorio di Nissa, e su altri. Proseguendo in questo itinerario storico-culturale nel IV secolo, cita l’epistolario di Girolamo, il celebre traduttore latino della Bibbia. E per presentare le 154 lettere a noi pervenute di Girolamo, Ravasi segnala il saggio di Marilena Amerise, “Girolamo e la senectus”. Il prof. Ravasi, che definisce Marilena “una straordinaria studiosa”, considera il lavoro della ricercatrice coriglianese, scomparsa improvvisamente nel febbraio 2009 a soli 33 anni, “un piccolo gioiello di acribia testuale e di analisi tematica attorno alle età della vita e alla morte, così come sono delineate nell’epistolario geronimiano che l’autrice vaglia con estrema finezza, inconsapevole di lasciare con questo suo scritto un vero e proprio testamento spirituale.”

Il testo di Marilena Amerise, citato dal noto biblista, ha come titolo “Girolamo e la senectus. Età della vita e morte nell’epistolario”. È stato pubblicato dall’Institutum Patristicum Augustinianum di Roma nel 2008. Il tema affrontato è quello della vecchiaia. “L’uomo per tutta la sua vita subisce un processo di cambiamento continuo, fisico e spirituale e con l’avanzare dell’età avverte il melanconico desiderio della lontana giovinezza. L’invecchiamento non è altro che la percezione visibile del tempo che scorre e tutto cambia… ”, come avevano affermato Eraclito e Platone. E una riflessione sulla vecchiaia non può che condurre, inevitabilmente, a quella sulla morte, e anche di quella morte quando essa avviene in modo prematuro, lasciando nel dolore e nella disperazione parenti e amici. Ecco perché Ravasi parla di questo lavoro di Marilena come suo testamento spirituale.

Quell’abbraccio

Ma permettetemi di aprire una parentesi. Una copia di questo studio, insieme ad altri lavori di Marilena, mi era stata consegnata, nella sede della Fondazione Carmine De Luca, dalla mamma di Marilena, la bravissima maestra Rosanna, che aveva deciso di dare una mano alla Fondazione stessa e, in particolare, all’avvio della Biblioteca dei bambini e ragazzi. Sapeva benissimo, la maestra Rosanna, che gli studi di Marilena erano molto specialistici e lontani dalla mia capacità interpretativa, eppure voleva che me ne occupassi un po’. Piano piano arricchivo la mia conoscenza degli studi di Marilena anche attraverso altri saggi e articoli che la studiosa andava scrivendo su riviste e giornali.

Nel dicembre del 2008, era il periodo natalizio, incontrai Marilena con i suoi genitori, davanti ad un noto supermercato cittadino. Sapeva tutto di me, perché informata dalla mamma. Sapeva anche che avevo i suoi libri e mi raccomandò di parlarne a bassa voce, di darne notizia ma senza enfasi. Con leggerezza. Ci lasciammo per risentirci telefonicamente o a mezzo internet. Quell’abbraccio, quella stretta di mano e quel sorriso ampio e spensierato mi si sono conficcati dentro come una spina, una spina che mi porto addosso con amara dolcezza.

Ma i progetti terreni, a volte, non tengono conto che siamo come foglie ingiallite d’autunno appiccicate a un albero. E Marilena, che era foglia verdissima e tenerissima, “se ne volò leggera leggera in cielo”, per citare il suo Girolamo. Era pur sempre una foglia, delicatissima, fragilissima. Come lo siamo tutti, in tutte le stagioni.

La fragilità

Il tema della fragilità del vivere è uno dei concetti che caratterizzano l’epistolario di Girolamo (spesso indicato da Marilena come “il monaco di Betlemme”) e del quale si parla ampiamente nel saggio: “Ma la vera saggezza, afferma Girolamo, è nella consapevolezza della propria caducità. L’ideale da raggiungere era pertanto la sapienza del cuore, unico “antidoto” alle sofferenze del tempo presente. Girolamo nelle sue lettere più volte menziona la fragilitas della condizione umana e si riallaccia agli autori profani, che avevano trattato della brevità della vita, accanto ai quali menziona motivi biblici.”

Per chi si occupa di storia del cristianesimo antico sono tanti i motivi per accostarsi all’epistolario di Girolamo di Stridone (347-410 d.C.). Nel saggio, Marilena Amerise, con scrittura rigorosa e sobria, si sofferma sulla vecchiaia quale motivo di studio nel mondo pagano e in quello cristiano. In verità, “Nella letteratura cristiana non si trovano infatti trattati dedicati alla vecchiaia, al contrario di quanto avveniva nella produzione classica.” Girolamo, invece, rappresenta “un caso particolare”: pur non avendo scritto un de senectute lascia un epistolario molto interessante, una delle testimonianze cristiane “più cospicue in riferimento alla vecchiaia”. E se spesso alla vecchiaia è legato il concetto della morte, un binomio inscindibile, in Girolamo questo rapporto non è assoluto. “La vecchiaia è considerata come l’età nella quale l’uomo deve prepararsi alla morte, come indicano bene le parole di Seneca: (61,2) ante senectutem curavi ut bene viverem, in senectute ut bene moriar. Nell’epistolario di Girolamo, con l’eccezione dell’epistola 140, non emerge questo collegamento. Tale tendenza conferma quanto evidenziato da Gnilka: la tradizionale accusa secondo cui la vecchiaia era una età infelice perché prossima alla morte non ha più valore nella mentalità cristiana, che sviluppa una diversa concezione della morte. Girolamo, nell’epistolario, non considera tanto il nesso tra vecchiaia e morte quanto piuttosto approfondisce i temi della morte prematura e del dolore.”

La letteratura consolatoria

L’ultima parte del saggio è un’analisi approfondita sulla letteratura consolatoria. La morte precoce provoca dolore e strazio tra parenti e amici. Girolamo, attraverso le sue lettere, cerca di dare risposte allo sgomento provocato da una morte in tenera età: dalla morte come fine all’esilio terreno alla morte prematura come segno di predilezione di Dio. Ma queste motivazioni possono non essere del tutto consolatorie, in quanto “la morte prematura di giovani innocenti destava un tormentoso interrogativo che metteva sotto accusa la giustizia divina.”

E mentre i pagani ricorrevano al fato, al destino, i cristiani “ricorsero all’argomento dell’imperscrutabilità dei disegni divini.” Scrive la Amerise: “Il monaco di Betlemme si era posto la domanda su quale senso potevano avere le morti di piccoli innocenti o di uomini nel fiore degli anni, violentemente strappati alla vita. Nella commemorazione di Blesilla, morta all’età di 20 anni, Girolamo si sofferma a riflettere sullo scandalo della prosperità degli empi e della morte dei giusti e confessa che anche lui era martoriato dal dubbio.” A questo dubbio Girolamo risponde con l’imperscrutabilità dei disegni divini. L’uomo “non può comprendere tutto, ma deve credere che dietro al male apparente c’è un disegno divino d’amore”, chiarisce Marilena Amerise. Di conseguenza anche il dolore di chi resta, pur comprensibile, non deve mai divenire disperazione.

Da tutto ciò discende un altro concetto caro alla concezione cristiana della vita: la compiutezza della vita è indipendente dalla durata della stessa. Non è l’età che definisce la maturità della persona, la saggezza, la virtù, ma la qualità del tempo vissuto. In sostanza, come per Seneca, anche per Girolamo l’accento è “sulla qualità della vita e non sulla quantità.” Ecco perché, per Girolamo, non è così perentorio il nesso vecchiaia/morte; egli sposta la sua attenzione “sull’atteggiamento che i cristiani devono avere di fronte alla morte ed in particolare a quella prematura. A questo riguardo – aggiunge la Amerise – utilizza i motivi consolatori presenti anche nella letteratura consolatoria pagana: il tema della morte come una legge comune a tutti; e si può notare che la meditazione sull’universalità del morire sia per i cristiani sia per i pagani risulta essere il primo motivo di alleviamento del dolore; il motivo della morte prematura vista come un segno di predilezione da parte di Dio.”

Girolamo è considerato “un efficace testimone della complessità che caratterizza la fine del IV secolo”, nonché la sintesi di “una fondamentale continuità tra tradizione classica e pensiero cristiano”: forse sono questi alcuni motivi che hanno spinto Marilena Amerise a uno studio così analitico dell’epistolario. Forse vi è anche un qualche motivo recondito; certo è sorprendente la coincidenza tra le cose scritte e la sua storia personale: una vita intensamente vissuta, una morte precoce. E lei stessa, che collabora a redigere l’ennesima lettera consolatoria, quasi un Girolamo dei nostri tempi, per dare delle motivazioni a una morte così prematura a quanti, piombati nello sconforto totale e nello smarrimento quotidiano, considerano ingiusto strappare alla vita chi ancora è nel fiore degli anni.

Spero, parafrasando le ultime righe riportate da Marilena a conclusione del saggio, che questo breve scritto resti come un canto in sua memoria. Se non ci è possibile averla fisicamente vicina, teniamola abbracciata con il ricordo; e poiché non ci è dato di parlare con lei, non smettiamo un istante di averla sulle labbra.

"Odi, poesie liriche e... sorridi" all'Ospedale San Camillo Forlanini a Roma

“Odi, poesie liriche e… sorridi” all’Ospedale San Camillo Forlanini a Roma
Gruppo di Servizio per la Letteratura Giovanile (GSLG)

Quest’anno il Gruppo di Servizio per la Letteratura Giovanile (GSLG) si è impegnato a individuare un’iniziativa originale da presentare ai bambini ospedalizzati per farli partecipare all’appuntamento annuale “Ottobre piovono libri”.

Il 14 ottobre a partire dalle ore 9 incontrerà i piccoli degenti del reparto di chirurgia pediatrica dell’Ospedale San Camillo Forlanini a Roma con una mattinata dedicata alle emozioni della poesia. “Odi poesie liriche e.... sorridi” sarà presentato da Claudia Camicia con l’ausilio di Mariangela Cimini, illustratrice, per una lettura sia dei versi sia delle immagini.

Le emozioni e i sentimenti sono amplificati quando il bambino e i genitori vivono l’esperienza della malattia e del ricovero. Ogni emozione ha una voce poetica che il fanciullo può leggere e rintracciare nel suo vissuto. Con questo presupposto si offre un incontro di lettura e disegno. Ogni sentimento ha una sua immagine visiva che il bambino descriverà con colori e materiali. L’incontro prevede una fase iniziale di letture poetiche seguito da un laboratorio artistico per bambini e adulti.

Il Direttore del reparto di ChirurgiaPediatrica Prof. Alessandro Calisti ha espresso un ringraziamento per questa iniziativa ricordando che le ore all’interno della struttura ospedaliera sono lente e silenziose, devono invece essere riempite con attività adatte ai bambini e mantenere il più possibile i ritmi delle giornate regolari. La lettura, ha ribadito l’insegnante Gloria Franco, responsabile della Scuola in Ospedale, può essere fonte di momenti distensivi ma anche di formazione. Il Gruppo di Servizio per la Letteratura Giovanile entra a far parte della rete della Solidarietà del San Camillo Forlanini e lavorerà in sinergia con altre 30 associazioni, coordinate dall’efficienza e la sensibilità della Dott.ssa G. Natalucci, Direttrice dell’UOC URP. L’appuntamento nasce da una convenzione con l’associazione “Salvamamme Salvabebé” di Roma, rappresentato nell’azienda ospedaliera dalla Dott.ssa Elena Donadio.


http://www.gruppoletteraturagiovanile.it/

domenica 4 ottobre 2009

La borsa di studio "Marilena Amerise"

LA BORSA DI STUDIO “MARILENA AMERISE”

La Fondazione Carmine De Luca continua a seguire con particolare attenzione le iniziative culturali e scientifiche dedicate alla giovane studiosa coriglianese Marilena Amerise e a darne la massima diffusione.

È di questi giorni la notizia, comunicata ufficialmente dal Decano della Facoltà di Filosofia dell’Università Pontificia Salesiana di Roma, prof. D. Mauro Mantovani, relativa all’assegnazione della prima Scholarship “Marilena Amerise”.

Si tratta di una Borsa di studio assegnata agli studenti più meritevoli grazie alla collaborazione tra la suddetta Università e il Centro Culturale “Paolo VI” di Sant’Ivo alla Sapienza di Roma.

Il riconoscimento è andato, per l’anno accademico 2009/2010, alla studentessa Martina Manca, nata e residente a Roma ed iscritta per il nuovo anno accademico al I corso del II ciclo (Licenza/Laurea specialistica in Filosofia e Scienze antropologiche). La studentessa ha concluso gli studi del I ciclo con il massimo dei voti.

La Scholarship “Marilena Amerise”, che prevede la completa esenzione delle tasse accademiche 2009/2010, ammonta e millecinquecento euro ed è stata raccolta grazie ai contributi di varie persone, che la Facoltà di Filosofia dell’Università Pontificia Salesiana e il Centro Culturale “Paolo VI” ringraziano sentitamente.
In maggio 2010 si darà avvio alla Borsa di studio 2010-2011.