lunedì 26 ottobre 2009

PER UN PROGETTO CULTURALE DELLA POLITICA

PER UN PROGETTO CULTURALE DELLA POLITICA
Giovanni Pistoia


Mi chiedo: quale ruolo può avere il cittadino nei confronti dell’Ente locale nel nostro territorio? L’Ente locale è tenuto in scarsa considerazione. Lo stesso cittadino si sente tradito, abbandonato, mortificato. Avverte di sentirsi privato della propria dignità.
È necessario, quindi, invertire questa tendenza, che contribuisce al disfacimento del tessuto sociale. Lavorare, dunque, per ridare onorabilità, dignità, autorevolezza, sovranità all’Ente locale significa anche lavorare per riaccendere quell’indispensabile orgoglio di sentirsi parte integrante di un processo teso a ricercare e rilanciare occasioni di sviluppo, di crescita morale, civile, culturale ed economica della comunità alla quale si appartiene. Avviarsi, in sintesi, al superamento del “cliente demotivato” e procedere verso il “cittadino responsabile”.

I nostri paesi sembrano in ginocchio, rassegnati al declino, senza prospettive. È indispensabile cercare alleati, energie, uomini e donne, giovani, perché questi paesi si mettano in cammino, riacquistino fiducia, abbiano prospettive di lavoro, di civiltà, di democrazia. In sostanza, un futuro.
In questo contesto, al cittadino spettano grandi e responsabili ruoli. Ruoli di vigilanza, di controllo, di denuncia, ma anche l’impegnativo ruolo di farsi carico del governo della città.
Il cittadino, attraverso i partiti ripuliti, le associazioni, le varie e diverse forme di aggregazione, può essere il protagonista di progetti di costruzione di alleanze tra forze politiche democratiche, progressiste, singoli soggetti politici, rigorosamente orientati a lavorare per la collettività.
È possibile e auspicabile che dalla società possa emergere una proposta operativa tesa ad elaborare un progetto, ideale prima che materiale, per dar luogo ad una nuova fase costituente per questi nostri paesi, perché di ciò essenzialmente hanno bisogno le nostre città.
E per far ciò non si può non ipotizzare una pedagogia del vivere civile. Credo, infatti, che sia indispensabile un’opera educatrice della comunità per la comunità. Bisogna educare alla comunità. È essenziale, indispensabile, vitale, una pedagogia del vivere civile. Senza quest’opera, che non può non partire dai banchi della scuola, continueremo ad avere una cultura egoistica, tutt’al più da condominio. E, invece, dobbiamo avvertire l’esigenza di sentirci compartecipi della comunità nella quale viviamo e operiamo. Dall’attuale cultura solipsistica può derivarne il “cliente” e giammai il “cittadino”.

Una città vivibile si costruisce con i cittadini consapevoli e non con il vociare questuanti dei “clienti” o demandando a sindaci taumaturghi impossibili miracoli. Si costruisce anche e soprattutto cercando quella “via” giusta che porti alla ricerca del “buon governo”. Si costruisce partendo dallo studio e dalla conoscenza della realtà: solo così si potrà intervenire con efficacia e con cognizione di causa. Spesso la soluzione ottimale sta dentro una ottima diagnosi.

E qui mi si lasci parlare con un esempio tratto dalla mia brevissima e tormentata esperienza amministrativa di sindaco di un centro tra i più angustiati del Mezzogiorno, Corigliano Calabro.
Mi si chiede, spesso, cosa abbia impedito di governare in quella consiliatura, e se la conflittualità tra partiti e/o uomini abbia avuto un peso rilevante così come comunemente si crede.
Nel caso della mia esperienza la conflittualità ha avuto un peso via via sempre più forte, ma la causa vera, che ha dato origine anche alla conflittualità, è stata la divergenza, latente ancora prima che manifesta, sulle scelte di carattere prioritario. Non è stato tanto la conflittualità che ha impedito di lavorare così come si voleva ma la carenza di analisi reali delle condizioni del paese, e la conseguente scelta delle priorità degli interventi, nonché i metodi della gestione, che non sono da considerare disgiunti dai contenuti del governo stesso.
Quasi sempre gli esecutivi dei nostri paesi, per venire incontro alle richieste quotidiane e sacrosante della gente, si sono rassegnati alla logica della sopravvivenza, si sono indeboliti nell’affrontare il quotidiano, si sono immiseriti nella vecchia politica-tampone. Ma questa fatica non poteva ottenere risultati positivi, perché da noi le cause dei quotidiani disservizi hanno radici antiche e malformazioni congenite.

Sono convinto che bisogna aggredire i veri problemi “a monte”. Solo così si possono non dico azzerare i problemi ma ricondurli ad un’ordinaria gestione, e non viverli come eterne emergenze.
Il momento del coraggio. Coraggio di avviare una politica che tenda ad azzerare i problemi. E’ pura miopia perseguire comportamenti politici capaci solo di recare fittizi ed aleatori benefici, occultando gli effettivi problemi che per decenni hanno sonnecchiato in maniera più o meno latente sotto le ceneri di un artificioso e rovinoso benessere.
Cercare di azzerare i problemi, nel significato appena accennato, significa, appunto, avere coraggio. Ma non solo: si tratta anche di avere capacità e lungimiranza politica e amministrativa, molto raramente riscontrata nelle classi dirigenti meridionali.
Significa tagliare la pianta alla radice quando se ne ravvede la necessità, interrompendo una scialba e inutile esistenza o, meglio ancora, mettendo fine alla sua agonia, per impegnarsi, invece, nel seminare in maniera razionale e produttiva secondo la logica di una progettualità di medio e lungo termine. Fare ciò significa compiere scelte dolorose, quasi sempre impopolari. Si tratta, purtroppo, di promuovere una politica amministrativa che necessariamente scontenti fasce consistenti della popolazione oltre che colpire interessi consolidati nel tempo, ma che finisce, e non è un paradosso, per soddisfare le esigenze del paese, della comunità intesa in senso generale.
Un lavoro di regolamentazione della vita dell’Ente con ricadute non immediate sulla vita dei singoli cittadini, spesso compiute apparentemente in contrasto con le attese della gente, che vuole, invece, vedere fatti nuovi, visibili e immediati.
Ma dobbiamo convincerci, una buona volta, che un Comune che non dà regole certe, che non istituzionalizza i propri comportamenti, che non affondi il bisturi alla radice delle piaghe, non può che andare, inevitabilmente, verso il degrado. Questo non è pessimismo, è semplice lettura degli eventi.

Ho una mia profonda convinzione: solo la disperata, tenace, cocciuta ricerca di nuove rigorose e chiare regole del vivere civile può essere la direttrice di marcia per salvare i nostri paesi, paesi degradati nell’ambiente e nelle coscienze, moralmente a pezzi, dove spesso il bene collettivo è visto e valutato in modo sprezzante. Da questa convinzione può derivare quella tensione morale e ideologica, quella spinta progettuale e ideale, razionale e appassionata, rigorosa e entusiastica necessaria per poter credere ancora che è possibile modificare le realtà che ci circondano e che ci condizionano negativamente e, di conseguenza, lavorare per cause giuste ed esplorare nuovi sentieri.

Regole da rispettare, e da far rispettare, dunque, in un contesto che vede la comunità impegnata contestualmente in una decisa opera di autoeducazione a un sano comportamento del vivere civile.
Alle domande “Quali volti devono avere gli amministratori degli enti locali?”, “A quali canoni di comportamento devono rispondere?”, non credo che si possa dire niente di nuovo o di diverso dalle aspettative della gente sul “volto” che devono avere i sindaci e amministratori delle nostre città; ma è ovvio che il discorso può valere anche per quanti siano o saranno impegnati in varie istanze istituzionali.
Essi devono incarnare i valori della trasparenza e della moralità e avere, quindi, quella credibilità necessaria e indispensabile per affrontare con efficacia e determinazione i numerosi problemi che negano un giusto decollo alle nostre comunità. Un politico, un amministratore, un dirigente pubblico che non abbia questi requisiti minimi rappresenta un danno enorme per i rapporti tra Cittadino e Istituzione.

Non si deve dimenticare, e neanche per un istante, che i nostri territori perdono respiro sotto i colpi della delinquenza organizzata e non, e a causa, inoltre, di una diffusissima cultura della illegalità che si registra attraverso il comportamento dei cittadini.
La nostra è una società ampiamente illegale: gli amministratori, quindi, se da un lato si dovranno scontrare in maniera aperta con la criminalità, dall’altro, attraverso una corretta ordinaria amministrazione, dovranno assolutamente garantire l’applicazione delle leggi.
Il ripristino dell’ordine pubblico – che può avvenire se lo Stato, nelle sue varie articolazioni, vorrà impegnarsi seriamente (e su ciò nutro, al momento, grandi perplessità) – ed il recupero, o meglio, l’avvio della cultura della legalità, potranno, pertanto, essere sollecitati soltanto da figure integerrime, rigorose, dotate di coraggio e di vivo senso di responsabilità, oltre che di grande sensibilità.
Ma anche tutto ciò a nulla servirà se le nostre popolazioni non prenderanno finalmente coscienza che il bene della collettività non può essere delegato a nessun taumaturgo.

Mi sia consentito di precisare che cosa intendo dire quando uso l’espressione “società ampiamente illegale”. Credo si tratti di un altro importante nodo sul quale bisogna insistere per poterlo dipanare.
Non esiste, penso, un “palazzo” del potere, sia esso il Comune, la Regione, il Governo, ecc. dove si può annidare, e spesso è avvenuto, un potere corrotto e corruttore e, dall’altra, una società esterna al “palazzo”, invece, dall’anima candida, tutta ligia al dovere, rispettosa delle leggi e delle regole. Se questo fosse vero non avremmo, credo, “pezzi di santuari” del potere in tante aule giudiziarie.

“Se i santuari – affermò, un giorno, un autorevole magistrato – hanno avuto spazio e durata è perché si sono retti sulla complicità popolare, favorendone così l’immagine di una politica affrancata al degrado, alla corruzione e ad intrecci fra malavita organizzata e gestione dei pubblici poteri. Se crolla la base, cioè l’impostazione controversa dei concetti di mal governabilità, i santuari non esisteranno più… Dopo tutto i santuari sono lo specchio di noi stessi. Se esistono è perché noi li vogliamo”.

Possono anche essere opinabili queste affermazioni, ma non vi è dubbio che vi è stata e, forse, vi è ancora, una saldatura tra atti illegali o illegittimi consumati nel “palazzo” e parte della società cosiddetta “civile”. Se voliamo un po’ in basso ci accorgeremo di quanta illegalità o di quanti atti ed azioni illegittime è permeato il contesto che ci circonda. Se l’automobilista non rispetta la segnaletica commette un reato; se il vigile vede l’infrazione e non interviene si compie un altro reato; se, invece, viene redatto regolare verbale e la contravvenzione resta nei cassetti di qualche ufficio o viene “stracciata” si compiono altri reati. Se un cittadino titolare di concessione edilizia non paga gli oneri previsti dalle leggi in materia o non esegue il progetto così come da concessione a firma del sindaco o non rispetta le convenzioni sottoscritte o gli atti conseguenti o gli impegni assunti commette reati vari e di diversa natura; se il tecnico comunale non vigila attentamente o fa finta di non sapere e di non vedere o è chiaramente un “colluso” e compie reati; se l’amministratore di turno non interviene per imporre il rispetto delle leggi compie reati, e così via.
Se l’impiegato nelle ore di servizio è al mercato, compie reati; se il docente nelle ore di lezione lascia la classe e va a giocare al ping-pong al bar vicino, compie reati. Se il cittadino allaccia senza autorizzazione alcuna alla rete idrica o fognante, se occupa spazi demaniali abusivamente, se costruisce manufatti edilizi senza concessione alcuna, se recinge, senza autorizzazione alcuna, spazi pubblici trasformando gli spazi ad uso privato, ecc., compie reati, gravi o meno gravi.
E di esempi come questi, più o meno rilevanti, tratti dalle esperienze quotidiane, abbondantemente consumati sotto gli occhi di amministratori e cittadini, se ne potrebbero fare a volontà.
Dire, quindi, che la “società civile” è permeata largamente di atti penalmente e civilmente condannabili e che viviamo in un contesto con fasce considerevoli di illegalità non mi pare affermare delle eresie né voler stravolgere la realtà.
Né vale a giustificazione di un certo illecito commesso che è poca cosa rispetto ad altri. Certo, c’è sempre un reato più grave di un altro: la contravvenzione per un’auto in sosta è indubbiamente meno grave del furto dell’auto, il furto è considerato meno pericoloso di un omicidio, e così via. Quello che qui interessa sottolineare è che quando i delitti, più o meno gravi, sono così diffusi in un corpo sociale è evidente che il corretto vivere civile è fortemente messo alla prova e che la qualità della vita ne risente in maniera evidente. E un tessuto sociale intriso di normale illegalità è certamente più permeabile alla penetrazione della cosiddetta grande criminalità organizzata.

Ricondurre le azioni degli amministratori pubblici, e quelle delle popolazioni amministrate, entro rigorosi canoni legali, è il compito prioritario, davvero nuovo, di una classe politica, che intende definirsi nuova e che desidera porsi, con autorevolezza, come classe politica dirigente moderna.
Il “vecchio” e il “nuovo” di una classe dirigente sta soprattutto nei diversi metodi della gestione della cosa pubblica, nella definizione e, soprattutto, nei comportamenti, di e per una diversa visione della politica. Insomma, discontinuità culturale, vera, autentica.
Rifiuto e rottura netta verso un sistema di potere che continua a sancire un’inaccettabile arretratezza delle realtà calabresi e meridionali. Un progetto culturale prima ancora che politico, anzi un progetto culturale della politica.
Da ciò, credo, bisogna partire se vogliamo davvero traghettare i nostri paesi verso una nuova società.

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