sabato 26 aprile 2008

attualità/Investi in cultura


Investi in cultura

Come è noto il sistema del 5xmille permette ai contribuenti di devolvere una parte delle loro tasse alle organizzazioni onlus e del volontariato. Si tratta di una donazione che non costa nulla e puoi sostenere, se vuoi, le associazioni e le organizzazioni che ritieni meritevoli di attenzione.

La Fondazione Carmine De Luca – Onlus, che ha la sua sede presso il Palazzo Garopoli in Corigliano Calabro centro, è iscritta all’Anagrafe delle ONLUS, giusta nota dell’Agenzia delle Entrate – Direzione Regionale della Calabria del 2 Febbraio 2005, prot. N. 1536/2005 ai sensi del D. Lgs. 4 dicembre 1997, n. 460.

È iscritta, altresì, all’Albo Sociale del Terzo Settore del Comune di Corigliano Calabro dal 26 febbraio 2008.

Se desideri sostenere le attività della Fondazione è necessario segnalarlo al proprio commercialista: è sufficiente la denominazione della Fondazione e il codice fiscale così come espresso nell’immagine.

La Fondazione ringrazia per l’attenzione.

Sito della Fondazione:
http://www.fondazionedeluca.it/
info@fondazionedeluca.it
(26 aprile 2008)

giovedì 24 aprile 2008

eventi/L'Editore Abramo alla Fiera del Libro di Torino

L’editore Abramo alla Fiera del Libro di Torino

Abramo Editore, divisione editoriale di Abramo Printing & Logistics, partecipa alla Fiera Internazionale del Libro di Torino 2008 con uno stand individuale (Stand A51).

Nell’occasione sarà presentato ai lettori e al pubblico il Catalogo della produzione editoriale e le ultime novità librarie dell’importante Casa Editrice calabrese.

Come è noto l’appuntamento internazionale del Libro avrà inizio l’8 maggio e si concluderà il 12 dello stesso mese a Torino.

Per ogni informazione sulla Fiera del Libro, cliccare il sito: http://www.fieralibro.it/

Per informazioni su Abramo Editore, visitare il sito: http://www.abramo.com/

Foto: il complesso industriale Abramo a Catanzaro.

(24 aprile 2008)

mercoledì 23 aprile 2008

eventi/Fiera Internazionale del Libro 2008



Il tema della Fiera Internazionale del Libro 2008 è
Ci salverà la bellezza.

Il dilemma se l'è posto per primo Fëdor Dostoevskij sotto forma d’una drastica alternativa: il mondo o sarà salvato dalla bellezza o sarà dannato dalla bruttezza.

Sappiamo che la capacità di elaborazione concettuale e artistica è un tratto distintivo peculiare delle società umane. Ma come ha preso consistenza il concetto di bello, come è stato via via codificato ed elaborato? Da Platone in poi, filosofi, artisti, musicisti, scrittori, architetti, urbanisti, scienziati, mistici e teologi si sono confrontati incessantemente con la misura della Bellezza, elaborando canoni che sono stati poi sottoposti a una continua discussione.

Ogni civiltà e ogni epoca hanno proposto modelli spesso in aperto conflitto tra loro, e si sono trovate a interpretare il delicato rapporto fra vecchio e nuovo, tradizione e innovazione. È oggi ancora possibile identificare un canone, e se sì, quale? Come sono cambiati i gusti, che cosa si agita nell’immaginario collettivo? Esistono ancora i generi? L’idea del bello deve corrispondere a un’utilità pratica, a un obiettivo sociale?

D’altra parte, oggi siamo letteralmente circondati dal brutto. Quali strategie mettere in atto per rompere l’accerchiamento e riavviare un circolo virtuoso? In un contesto di rapide trasformazioni tecnologiche, le culture e i linguaggi sono sottoposti a una ibridazione sempre più serrata, che sta modificando in modo sostanziale la creatività e la comunicazione.L’opposizione dialettica fra il bello e il brutto, oltre ad approfondire il tema dei Confini che alla Fiera 2007 ha consentito un’ampia varietà di declinazioni, contiene dentro sé per estensione quella fra il buono e il cattivo: il decisivo rapporto che corre tra Estetica ed Etica, perché l’idea stessa di bellezza porta con sé una forte questione morale.

Nel 2008 Torino è capitale mondiale del design, vero linguaggio sovranazionale. Il motivo conduttore della XXI edizione della Fiera consente di affrontare il rapporto tra canoni estetici/utilità pratica/produzione e consumo. Saranno invitati a discuterne i maggiori designer italiani e stranieri nel campo della grafica, dell’architettura, delle arti applicate, della moda, degli oggetti e degli strumenti di largo consumo (auto, elettronica, editoria libraria e giornalistica). Come nasce un oggetto riproducibile su scala industriale? Quali sono i rapporti tra committenza ed artista?

Nell’immagine il Logo dell’evento.

Per ogni utile informazione è consigliabile visitare il sito: http://www.fieralibro.it/

(23 aprile 2008)

martedì 22 aprile 2008

antologia/Carmine De Luca

Carmine De Luca

C’era una volta…
UN CACCIATORE DI FIABE
Concetta Guido*

CARMINE DE LUCA saggista e studioso di letteratura per l’infanzia sognava un mondo a misura di bambino.

I ragazzi indispettiti “pensarono bene di mettere mano ai proiettili, e sciolti i fagotti de’ loro libri di scuola, cominciarono a scagliare contro di lui i Sillabari, le Grammatiche, i Giannettini, i Minuzzoli, i Racconti del Thouar, il Pulcino della Baccini…”. Sarebbe il sogno di molti bambini sbarazzarsi in questo modo dei tomi nei “fagotti”, che oggi sono gli zaini dei Gormiti. Il bersaglio di questa singolare battaglia dei libri, però, non è un odiato maestro. È Pinocchio.
A Carmine De Luca piaceva la scena di “combattimento” tra il burattino e i compagni, che Collodi raccontava prendendo in giro l’autorevole (e autoritaria) editoria scolastica di fine Ottocento. La cita in una delle ultime cose che ha scritto, “Grembiuli e divise”, un saggio preparato per una mostra romana che lui stesso aveva progettato.

A Minuzzo, come lo chiamavano a Corigliano Calabro, dov’era nato il 25 febbraio del 1943 e dove tornava puntualmente in estate, piaceva tutto ciò che faceva entrare nell’infanzia in punta di piedi. Giocando, divertendosi, con la rigorosa attenzione dell’adulto che s’avventura nella dimensione bizzarra e fantastica senza ipocrisie, pronto a coglierne le virtù. L’adulto che non dimentica di essere anche lui un “figlio delle fiabe”.
De Luca era autore di testi scolastici, saggista e giornalista, ed era un “rodarologo eminente”, come lo definisce Mario Di Rienzo, responsabile del “Centro studi Gianni Rodari” di Orvieto. Viveva a Roma e in due decenni, tra gli Ottanta e i Novanta, ha instancabilmente dato un contributo alla costruzione di un moderno modo di intendere la formazione della cultura dei più piccoli. Attraverso riviste specializzate (ne fece nascere una decina), come collaboratore dell’Unità e di case editrici e, soprattutto, con il suo lavoro per gli Editori Riuniti, dove è stato coordinatore.
Ma è pensando soprattutto ai grandi, probabilmente, che nel 1996, un anno prima di morire, porta a termine un progetto che gli stava a cuore: una collana, per conto dell’Unità e dell’Einaudi, di quattordici volumi di fiabe, riservata ai lettori del quotidiano nazionale. Perché la fiaba è una cosa seria, è una stanza degli specchi in cui il bimbo si identifica, e la piccola fiammiferaia, così come il sold
atino di stagno, o le storie africane e quelle dei fratelli Grimm, narrano anche il terribile e l’inquietante della vita.
Minuzzo sosteneva che chi scrive per i piccoli non deve essere un “morbido giullare dei buoni sentimenti”. Cercava storie sommerse, frugava nella tradizione e denunciava la censura che nel tempo ha “annacquato” i racconti originali, per adattarli a un’infanzia “inamidata e conformista che è solo nella testa di moralisti e bacchettoni”.
L’istinto della lettura, diceva, non è innato come quello di mangiare e bere. Ma può essere innestato. “Operazione quanto mai delicata, perché il solo paragone che sopporta è quello con l’innesto di un nuovo senso”. Il sesto senso del libro, che gli adulti devono insegnare a usare, perché è uno “strumento per conoscere il mondo, per conquistare la realtà”.

Il mondo bambino di questo coriglianese dolce, modesto, allegro, che quando tornava in estate, raccontano i suoi amici, non esibiva le sue attività romane, è fatto di scritti sparpagliati nelle riviste e nell’editoria. A cercarli e a rimetterli insieme, con passione e dedizione, è una Fondazione nata nel 2003 proprio a Corigliano. Ideatore e presidente della “Fondazione Carmine De Luca” onlus, è Giovanni Pistoia (il materiale raccolto e le notizie sulle iniziative si trovano sul sito dedicato). La ricomposizione dell’universo di De Luca non è completata e, attraverso il web, si chiede la collaborazione di chi rintraccia suoi scritti. Pistoia adesso è impegnato nell’organizzazione di una nuova iniziativa, nella quale sono coinvolte la Biblioteca comunale e la Mediateca regionale. A maggio saranno presentate le pubblicazioni della Fondazione e ci saranno tre mostre (sui libri d’artista, su autori partenopei e sull’arte dell’incisione), tutte incentrate sul legame forte, e oggi minacciato, tra illustrazioni, testo e carta. Nella cornice dell’infanzia e della lettura. Le due coordinate dell’amico Minuzzo. Non a caso l’associazione napoletana “Galassia Gutenberg” gli ha intitolato la sua biblioteca specializzata
.

Carmine De Luca era nato in una famiglia con risorse economiche limitate. Da subito capì quale poteva essere la via di fuga: la scuola e i libri. Lavorava presso un notaio di Corigliano per poter mantenere gli studi in Lettere all’università di Bari. A portarlo nella capitale fu l’insegnamento.
Tutto cominciò dalla redazione di “Riforma della scuola”, dove incontrò lo scienziato e umanista Lucio Lombardo Radice, il professore Tullio De Mauro e altri protagonisti della linguistica del secondo Novecento. Un mondo del quale diventò subito cittadino e in cui presto si mise all’opera, passando da un progetto all’altro. Realizzò, per i tipi di Paravia, “Parole in viaggio” per la scuola media, curò per le superiori una serie di volumi di narrativa editi dalla Bruno Mondadori. Per la Laterza, con Pino Boero, fece una “Letteratura per l’infanzia” che dal 1995 al 2006 ha segnato tredici edizioni. Nel 1992 si dedicò a una chicca: pubblicò, con un editore calabrese, Abramo di Catanzaro, la prima edizione italiana del pamphlet “I giornalisti” di Honoré de Balzac.

Ma un lavoro minuzioso lo riservò a quello che considerava il grande innovatore della letteratura e misura di bambino, quel Gianni Rodari del quale diventò il referente per ogni iniziativa che riguardava la sua opera. Lo sondò, lo interpretò, raccontò il senso di un universo strampalato e alla rovescia. Fu proprio De Luca a fondare, nel 1994, “C’era due volta…” , la rivista del Centro studi di Orv
ieto. E per gli Editori Riuniti e per altre case editrici ha curato circa venti pubblicazioni di testi dell’autore. Nel solco del pensiero rodariano fece amicizia con lo scenografo e illustratore Lele Luzzati (una delle mostre che la Fondazione sta preparando è a lui dedicata). Un altro adulto bambino legato alla chiave del “c’era due volte… “ , anzi due. La formula che introduce nella fantasia, che avvicinano il grande e il piccolo.
Si pronuncia e scatta l’alleanza. “Allora – scrive De Luca sull’Unità – ci si addentra nei territori del fantastico con cuore gonfio, pronti a viaggiare nella realtà degli incantesimi dove è possibile ogni libertà”.

*Nota. Il Quotidiano della Domenica, l’inserto culturale de “il Quotidiano della Calabria” del 20 aprile 2008, ha dedicato un ampio servizio, a colori, alla figura e alle attività culturali dello studioso Carmine De Luca, nato a Corigliano Calabro, vissuto a Roma, deceduto, ancora in giovane età, nel 1997 a Pavia. Il servizio, firmato dalla giornalista Concetta Guido, è corredato da numerose foto (alcune vengono riportate in questo post).

Cliccare sulle immagini per ingrandire.

(22 aprile 2008)

domenica 20 aprile 2008

giochi/Staccia, barattolo e carburo

Staccia, barattolo e carburo
Carmine De Luca*

Il gioco del barattolo e del carburo era tra i giochi proibiti del dopoguerra. Con carburo e barattolo ho avuto a che fare tra la fine degli anni quaranta e i primi anni cinquanta.

Quel gioco era pericoloso. Lo sapevamo. E i grandi facevano di tutto per vietarcelo. A un ragazzo saltò per errore una parte della mano. Era stato incauto nel momento dell’accensione. L’accensione era il momento più delicato; per riuscire bisognava tenere presente e imitare i movimenti dei fuochisti quando avvicinano la fiamma alla miccia dei fuochi d’artificio.

Barattoli se ne trovavano quanti se ne voleva. Carburo no. Bisognava procurarselo il più delle volte rubacchiandolo. Mille pretesti per entrare in tre-quattro nel negozio dove il carburo stava in un grosso bidone; altri pretesti per distogliere l’attenzione del bottegaio; furtivamente si riusciva a trafugarne qualche pezzetto. Era grigio, a sassi più o meno grossi che si sfaldavano facilmente. Lo usavano per la saldatura autogena e per le lampade ad acetilene. Anche per quelle lampade che, in primavera, a Pasqua, accompagnavano la sera del venerdì santo la processione del Gesù morto, una processione ciondolante per vicoli e strade.

Dunque, il gioco. Si fa una buca a terra, vi si versa un po’ d’acqua, poi il carburo; il barattolo, al quale si è praticato un forellino sul fondo, rovesciato, li si incassa nel terreno a chiudere la buca, dove intanto il carburo a contatto con l’acqua sublima e libera acetilene. Si produce nel barattolo una specie di camera di scoppio per l’addensarsi del gas prodotto dalla reazione chimica.

Uno di noi avvicinava la fiamma di una torcia, fatta di un foglio di giornale arrotolato, al foro del barattolo. Uno scoppio, e il barattolo diventava un proiettile. Si faceva a gara a chi riusciva a spedirlo più in alto.

Il gioco comportava alcune abilità. Prima, l’abilità di individuare il terreno giusto per la buca. Un terreno non troppo permeabile: doveva trattenere l’acqua per un tempo sufficiente alla reazione chimica. Ma prima ancora l’abilità di riuscire a procurarsi il carburo: ai bambini non si vendeva, si sapeva dell’uso pericoloso che ne avrebbero fatto.

Terza abilità: la buca di dimensioni giuste, né troppo ampia né troppo piccola. Meglio profonda e stretta.

Quarta abilità: le dimensioni del barattolo. Soccorrevano i residui della cucina. A quei tempi i migliori barattoli erano quelli della “conserva” di pomodoro, stretti e lunghi, credo da due etti e mezzo. Delle stesse dimensioni più o meno degli attuali barattolini per succhi di frutta. Qualcuno di noi aveva scioccamente immaginato che a barattolo grande corrispondesse scoppio più forte e più lunga gittata del proiettile. Ci si provò con un barattolone di pomodoro, di quelli addirittura da cinque chili. Un fallimento. Ne sortì un rumore sordo e slabbrato e un salto storto e basso.

Quinta e più difficile abilità era quella di riuscire ad avere la giusta cautela e attenzione al momento dell’accensione. Chinati, ginocchia a terra, a distanza tale da proteggersi dagli scoppi falliti (quelli che spruzzavano tutt’intorno acqua, carburo e fango).

Il fascino del gioco era dato anche dalla sua pericolosità. Lo sanno benissimo i bambini.

Un altro gioco. Quello che chiamavamo della “staccia”. Qui cade a proposito un riferimento storico-linguistico. Il “Glossario latino italiano” di Piero Sella, nel volume dedicato a Stato della Chiesa, Veneto e Abruzzo, enumera sotto la voce “ludus” il nome di numerosissimi giochi ricavati dagli statuti di varie città. “Ad staczellas” cioè “gioco delle piastrelle” è ricavato dallo statuto di Teramo del 1440. La parentela morfologica tra staczella e staccia è evidente. Fine della citazione.

Per noi la staccia era un pezzo di mattone più o meno ben levigato per meglio afferrarlo e lanciarlo. Io trovavo straordinariamente adatta al gioco la staccia di mattone di argilla, sulle due facce ugualmente ruvida. Altri preferivano un pezzo di piastrella che per me aveva l’inconveniente di presentare una faccia ruvida e l’altra liscia. Al momento del lancio una parte ti scivolava dalla man
o, l’altra esercitava maggiore resistenza. Ma era questione di gusti, anche.

Queste le regole del gioco. Ciascun giocatore dispone di una staccia da lancio; un altro pezzo di mattone fa da birillo. Lo si pone in verticale, ad una certa distanza, diciamo dieci metri circa. A turno si lancia. Bisogna colpire e far cadere il birillo.

L’analogia con le bocce è evidente. La staccia era le bocce dei bambini, trenta-quarant’anni fa (forse ancora oggi qualche ragazzino lo gioca) e nel medioevo.

Noi lo si integrava con la posta delle figurine o di monete fuori corso. Sulla staccia-birillo si collocavano delle figurine (quelle di Tarzan-Weissmuller; quelle dei giocatori del Torino: Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti…; quelle degli attori hollywoodiani: sopra tutti il fascino erotico di Jane Russell). Si vincevano quelle che, colpito e abbattuto il birillo, si trovavano più vicine alla propria staccia.

Uno degli effetti dei continui colpi era quello di ridurre a brandelli le ormai irriconoscibili figurine. Quale fosse il limite della loro perdita di valore d’uso e di scambio era sempre oggetto di accese discussioni.

Se erano monete al posto di figurine, si montava sul birillo un mucchietto di soldini che facilmente si trovavano in casa, conservati dai tempi della riforma monetaria con il passaggio della monarchia alla Repubblica. In bilico stavano una sopra l’altra monetine diverse, di diverso valore –cinque o dieci i venti centesimi – ma tutte con il profilo e la pelata di Vittorio Emanuele III, re sciaboletta, com’era detto, e dall’altra parte l’immagine di un’aquila (un’aquila imperiale?) del tutto inadeguata all’Italia stracciona o l’immagine di una spiga un tantino più plausibile a dare idea della fame. Ma per noi ragazzini quelle monetine avevano comunque un che di prezioso. Simulavano una prosperità che era solo nei sogni.

Anche questo era un gioco.


*Nota. L’articolo “Staccia, barattolo e carburo” di Carmine De Luca è pubblicato sul quotidiano “l’Unità” e sulla rivista “il serratore”. Successivamente, insieme ad altri “pezzi” dedicati ai giochi, è raccolto nel volume “Alla ricerca dei giochi perduti”, il serratore, 1998. Il volumetto, che contiene una breve nota di Enzo Viteritti, direttore della rivista, è arricchito da disegni di Cosimo Budetta.
Il “pezzo” riproposto è tratto dal libro, così come i disegni.

Cliccare le immagini per ingrandirle.

Hai una esperienza in merito a questo o ad altri giochi da raccontare? Se vuoi, scrivimi: giovannipistoia@libero.it

(20 aprile 2008)

sabato 19 aprile 2008

giochi/La libertà del nascondino

La libertà del nascondino
Carmine De Luca*

Tirato a sorte, uno stava sotto e contava – ad occhi chiusi – fino a trentuno. Gli altri (tre, cinque, sette… ) cercavano nascondigli tra i meno prevedibili. Dopo il trentuno cominciava la caccia, che si concludeva in tempi a volte lunghissimi. Quindi, di nuovo daccapo: toccava allo stesso di prima ricontare fino a trentuno, se non era stato abbastanza bravo a stanare i compagni di gioco e ad evitare che toccassero prima di lui la “tana”. Oppure toccava al primo che si fosse lasciato scoprire.
Nascondino o nascondiglio, le denominazioni più diffuse. Ma è attestato anche “giocare a tana” o più raramente – per esempio in provincia di Ferrara – “giocare al cuc”. A Corigliano Calabro, il gioco è denominato ‘a petr’i trentuno.

Una suggestiva descrizione del gioco è l’esordio del romanzo di Massimo Bontempelli, Vita e morte di Adria e dei suoi figli.

<<”Liberi tutti!” è il più bel gioco del mondo. Non basta fare a nascondersi, non basta fare a rincorrersi. È un gioco complicato e disteso come una rete. Ecco: v’è un centro, punto di partenza, e si chiama “la tana”. Tirato a sorte il cacciatore, costui si mette con la faccia bendata contro la tana, che sarà un albero, un angolo di siepe, uno spigolo di muro; gli altri in punta di piedi vanno a nascondersi, chi qua chi là, mentre colui conta, forte e con ritmo lento che è ben fissato dalla tradizione, fino a trentuno. Prima ch’egli abbia finito, certo gli altri son tutti a posto, non si sente più un respiro, né un rompere di sterpo. Lui grida “trentuno!” alzando la testa, strappandosi la benda dagli occhi, e si volta e guarda intorno. Alberi, siepi, prati, muri, aiuole; e non un vivente: lui può credersi rimasto solo nel mondo. Guarda lo spazio come fa l’avvoltoio, fiuta come un leopardo, ondula come un serpente, poi si slancia. Di qualcuno dei suoi lepri sa già ove s’è appiattito: è straordinaria l’intuizione che i ragazzi hanno di questo. Ma non basta andare a scoprire il lepre nel nascondiglio. Qui il gioco si complica. Il cacciatore nella sua ricerca ha dovuto allontanarsi, ha fatto qualche svolta, non ha più la via e forse neppure la visuale diretta verso la tana. Ora il lepre scoperto balza e fugge, e se riesce a raggiungere lui la tana, il cacciatore è perduto, l’altro trionfa, e può di là proclamar libero chi vuole, anche tutti: “Liberi tutti!”>>. Dunque, snidatolo, bisogna inseguirlo e afferrarlo a tempo. Intanto gli altri saltan fuori: chi di qua, chi di là; s’erano affondati nel suolo, incarnati negli alberi, disciolti nell’aria; ora avanti ai suoi occhi si riplasmano, riappaiono; lui s’è voltato, è riuscito ad afferrarne due, uno per ogni mano, che è già un’impresa grande, e sente la voce d’un terzo dalla tana: >. Grande gioco, gioco da generali d’esercito. Vi eccellono i ragazzi tra i sette e i tredici anni. Passati i tredici, le qualità di astuzia barbarica e selvaggia prontezza ch’esso richiede si corrompono; il ragazzo si volge a giochi più violenti e meno immaginosi, la fanciulla comincia a impadronirsi del mondo>>.

C’è chi lo ritiene il gioco più antico del mondo. Se ne possono intuire le ragioni. Nascondersi, apparire e sparire, esserci e non esserci, e mimare, secondo le regole di una precisa strategia, una qualche forma di conflitto fa parte dei riti primordiali. Se è vero che ogni gioco deriva, per graduale “caduta” dal mondo degli adulti alla dimensione infantile, da antichi rituali, il gioco del nascondino probabilmente mima le azioni della caccia dei primi uomini. La caccia aveva regole rigorose. Una volta individuata dai nascondigli la preda, occorreva tenersi pronti a sottrarsi con la fuga ai suoi attacchi o impedire che l’animale sfuggisse alla caccia e si mettesse in salvo nella tana.

È da credere che i bambini già allora, per imitazione, giocassero alla caccia. Uno faceva la parte dell’animale cacciato, gli altri erano i cacciatori. Si giocava, e ci si preparava alla vita, alle prove future, alle strategie della caccia reale.

Noi giocavamo a nascondino per diletto, soprattutto nei tardi pomeriggi della stagione dei giochi di strada (dalla primavera al primo autunno). Non era difficile formare la squadra. Anche i più reticenti finivano per accettare. Forse perché celarsi alla vista degli altri è di quei comportamenti che rassicurano e dispongono all’affermazione di sé. Il nascondiglio è punto di osservazione a senso unico: dal nascondiglio si guarda, si scruta senza essere visti, senza essere controllati. Il nascondiglio diventa ombelico del mondo.

Quando si sceglieva di giocare a nascondino, non sempre era per genuine ragioni ludiche. Poteva capitare che la proposta del gioco celasse malizie di diversa natura e portata. Magari si pensava a uno scherzo contro chi stava sotto, a contare – ad occhi chiusi – fino a trentuno, e far di tutto per tenerlo sotto il più possibile (la vittima era sempre il meno scafato, il più sempliciotto). Magari, messe insieme cicche raccolte per strada, si fumava nel nascondiglio l’improvvisata e molto sghemba sigaretta. O magari – ancora meno ingenuamente – d’accordo con le bambine, ci si nascondeva in posti il meno possibile prevedibili per giocare ai fidanzati, a marito e moglie, al medico. Il gioco e il nascondiglio legittimavano tutto. Finanche la presenza di mamme, nonne, zie, sedute a sferruzzare fuori di casa, perdeva il carattere coercitivo e autoritario.

Poteva accadere che gli adulti diventassero complici nell’indicare i nascondigli più sicuri o che depistassero le ricerche. Anch’essi si ritagliavano uno spazio ludico.

E la loro complicità diventava a volte ambigua. A me capitò – ne ho la netta memoria – di trovarmi nascosto sotto la cupola formata da un lenzuolo che una giovane promessa sposa ricamava. Fu lei, maliziosamente, a invitarmi nella tana, adatta ad accogliermi e a darmi ricetto. La luce che filtrava attraverso il tessuto bianco del lenzuolo mi concedeva perturbanti visioni. Quel che è stato, non so ora dire. Fu ancora lei che – dopo quanti minuti? dopo quanti giri di gioco? – rivelò il nascondiglio a chi, dopo il trentuno, mi cercava.

Certamente, quella sera, scosso, non partecipai più al gioco.


*Nota. “La libertà del nascondino” di Carmine De Luca è pubblicato sul quotidiano “l’Unità” e sulla rivista “il serratore”. Successivamente, insieme ad altri “pezzi” dedicati ai giochi, è raccolto nel volume “Alla ricerca dei giochi perduti”, il serratore, 1998. Il volumetto, che contiene una breve nota di Enzo Viteritti, direttore della rivista, è arricchito da disegni di Cosimo Budetta.
Il “pezzo” riproposto è tratto dal libro, così come il disegno.

Cliccare l’immagine per ingrandirla.

Hai una esperienza in merito a questo o ad altri giochi da raccontare? Se vuoi, scrivimi: giovannipistoia@libero.it

(19 aprile 2008)

giochi/Nascondino

Nascondino
Giuseppe Pontremoli*

Al mio paese, quando ero bambino, Babbo Natale non portava regali. O meglio, non esisteva. Mica eravamo pagani, noi. Natale era una festa religiosa. Nasceva il Santo Bambinello, il Bambino Divino, il Salvatore - altro che renne. E si doveva esser buoni, naturalmente, ma non già per calcoli meschinamente utilitaristici, bensì per il fatto che nasceva Gesù. Il quale, figlio di Dio disceso sulla Terra per salvarci dal peccato e liberarci dalla peste dalla fame e dalla guerra, da ogni male, non poteva certo dedicarsi a frivolezze come una palla o una bambola.

Ci portava la Verità e la Vita, altroché. Certo, si ricevevano regali, a Natale, però regali utili, come il cappotto, le scarpe, un maglione. Ai giocattoli provvedeva invece, venti giorni prima, Santa Lucia. A sera, dopo cena, naturalmente in casa per il freddo ed il buio, seduti attorno alla stufa a recitare il rosario e raccontare storie, con i soli suoni della voce e del fuoco, aspettavamo il segnale. Da fuori, dalla voce - di sonno della neve, doveva arrivare prima o poi un rumore di zoccoli e di ruote, e uno scampanio. Santa Lucia passava col suo asino - si doveva aver fede, guai ad affacciarsi - e avvertiva di correre a dormire; al passaggio successivo non si sarebbe fermata dove ci fosse accesa qualche luce. E ci si addormentava, pregando che la notte fosse breve e la Santa attenta e generosa. E la notte era breve davvero, giacché al risveglio non ci si curava che la stufa non fosse ancora accesa e non vi fosse traccia della luce del giorno.

Annovero quelle attese e quei risvegli tra le gioie più intense, e così è stato inevitabile che Santa Lucia mi abbia seguito anche in questa orrenda città in cui nessuno la conosce, ed è inevitabile che ogni anno porti doni a mio figlio.

Ebbene, nonostante la mia reiterata devozione, credo che Santa Lucia mi abbia fatto uno scherzo, accecandomi. È stata sicuramente lei, infatti, a impedirmi di vedere, in un libro da me adoratamente letto e riletto, una pur ampia nota; il che mi ha portato, qualche tempo fa, su queste stesse pagine, a scrivere l'imperdonabile affermazione che in Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile non venga nominato il gioco del "Nascondino".

Eppure questo libro l'ho letto e riletto mille volte, sia nella traduzione di Benedetto Croce pubblicata da Laterza sia in quella di Michele Rak uscita da Garzanti nel 1986 e ora ripubblicata da quest'ultimo nei "Grandi Libri". L'ho letto e lo leggo e lo raccomando con particolare passione in tutti gli incontri che tengo presso scuole e biblioteche, a ragazzi e adulti, facendo anche sempre molto l'indignato per la scarsa conoscenza che se ne ha, ma solo adesso, a un'ennesima rilettura, mi sono accorto di una nota nell'Apertura della Seconda Giornata. Volendo essere pignolo, potrei dire che effettivamente "nascondino" non viene nominato, giacché Basile parla di "Covalera" (e Croce non lo traduce, ma Rak sì), però mi sembra non possano esservi dubbi leggendo quanto dice la nota in cui viene trascritta la descrizione che ne fece B. Zito in Defennemiento de la Vaiasseide, Napoli 1628: "Lo iuoco de la covalera lo ausano a Napole li fegliule grannecielle e se face de chi sto muodo: s'acchiettano otto o diece fegliule, li quali mprimmo iocano a lo tuocco a chi de loro deve attoccare a covare ed a chillo che attocca se le fa fare iuramento de non vedere addò se vanno ad accovare e così accovate che so' gridanno nmerso chillo che cova e le diceno: Vienela viene. Allora chillo che cova se parte da lo luoco addove steva e va cercanno chille che stanno accovate e s'abbene che ne trova quarcuno subbeto l'abbraccia stritto e dice: Audello audello; e ntanno chillo ch'èpegliato l'attocca a covare ad isso. Si canta nel giuoco una filastrocca che dice: Cova covalera / Chi ncappa e chi leva, / spingola ccà spingola llà, / Santa Lucia te fa ceca'". Sì, Santa Lucia m'ha fatto ceca', e io non posso fare altro che chiedere scusa.

Ritornare a quel pezzo è però un fatto di indubbia utilità, giacché mi permette di dire che gli scritti di Carmine De Luca sui giochi cui facevo riferimento in quel mio articolo sono ora stati raccolti in un elegante volumetto delle edizioni Il serratore di Corigliano Calabro. Purtroppo il libro, arricchito dalle illustrazioni di Cosimo Budetta e contenente anche un capitolo dedicato a un davvero magico gioco di carte che a me aveva insegnato mio padre, è fuori commercio ed è stato pubblicato in occasione del convegno "La letteratura per l'infanzia e la figura di Carmine De Luca", svoltosi a Corigliano lo scorso ottobre.

Presso le stesse edizioni è però uscito un altro libro prezioso di scritti del caro, non dimenticabile Carmine (questo in edizione venale, ma forse difficilmente reperibile in libreria): Adesso vi conto una storia... Raccolta di note critiche sulle fiabe italiane e internazionali, curato da Giovanni Pistoia, contenente scritti di Tullio De Mauro, Ermanno Detti e Vichi De Marchi. Si tratta della raccolta in volume delle note che accompagnavano i quattordici volumetti di fiabe che nel 1996, curati da De Luca, uscirono allegati a "l'Unità": Andersen, Grimm, Perrault, Afanasjev, Capuana, Gozzano, Basile, Emma Perodi, le fiabe irlandesi di Yeats, le norvegesi di Asbjorsen e Moe, le africane di Paul Radin, le inglesi di Katharine Briggs, le campane di Roberto De Simone, le francesi di Madame d'Aulnoy e Madame Le Prince de Beaumont. Note, queste di De Luca, davvero preziose e illuminanti.

A Carmine piaceva particolarmente la storia di Pat Diver, raccontata da Yeats: la storia di uno che, non avendo nulla da raccontare e considerando le fiabe "frottole da vecchi per far piacere ai bambini", si trova a passarsela davvero male.

A noi, che siamo qui, per passarcela un po’ meno male, non rimane che raccontare e raccontare, camminando camminando, tra cecature e bagliori.

*Nota. Il testo di Giuseppe Pontremoli è pubblicato sulla rivista école (http://www.educazionesostenibile.it/) con il titolo "Cecature e Bagliori-Rubrica Leggere negli anni verdi". Non sono in grado di fornire il titolo dato al "pezzo" dall'autore, né la data esatta della pubblicazione, probabilmente tra il 1997/98. Lo scritto è stato gentilmente inviato da Alberto Melis che, tra l’altro, cura un bellissimo sito dedicato all’amico (http://www.giuseppepontremoli.it/), dove è riportata la testimonianza di Pontremoli sotto il titolo: Cecature e Bagliori. Rubrica Leggere negli anni verdi. école. Molto interessante e ricco di notizie il sito di Alberto Melis (http://www.albertomelis.it/).

I grassetti nel testo sono miei.

Foto: Carmine De Luca, docente, giornalista, storico della letteratura infantile.

(19 aprile 2008)

venerdì 18 aprile 2008

giochi/Il gioco più bello del mondo

Il gioco più bello del mondo
Giuseppe Pontremoli*


NASCONDINO. Collodi, Rabelais e Basile se ne sono dimenticati. Ma ci si può consolare leggendone la descrizione di Bontempelli e di De Luca.

Che il Paese dei balocchi insidiosamente celasse un trappolone, Pinocchio lo sospettava. Eppure avrebbe potuto addirittura saperlo. E questo, se non già la sera, prima di partire, di fronte alle fattezze e alle movenze dell'untuosamente ripugnante Omino di Burro, almeno alla mattina, sul far dell'alba, quando, felicemente arrivati, si poté finalmente vedere quel che c'era ma soprattutto quello che non c'era. "Nelle strade, un'allegria, un chiasso, uno strillio da levar di cervello! Branchi di monelli da per tutto: chi giocava alle noci, chi alle piastrelle, chi alla palla, chi andava in velocipede, chi sopra un cavallino di legno: questi facevano a moscacieca, quegli altri si rincorrevano: altri, vestiti da pagliacci, mangiavano la stoppa accesa: chi recitava, chi cantava, chi faceva i salti mortali, chi si divertiva a camminare colle mani in terra e colle gambe in aria: chi mandava il cerchio, chi passeggiava vestito da generale coll'elmo di foglio e lo squadrone di cartapesta: chi rideva, chi urlava, chi chiamava, chi batteva le mani, chi fischiava, chi faceva il verso alla gallina quando ha fatto l'ovo: insomma un tal pandemonio, un tal passeraio, un tal baccano indiavolato, da doversi mettere il cotone negli orecchi per non rimanere assorditi". Ma come? Che posto è mai questo, se in tutto questo bendidio non c'è il minimo spazio per quello che anche Massimo Bontempelli definirà poi il gioco più bello del mondo?

Povero Pinocchio. Voglio pensare che sia rimasto frastornato. Oppure avrà pensato che quell'assenza fosse tollerabile perché il più bello del mondo non compariva nemmeno tra i duecentodiciotto giochi di Gargantua che François Rabelais aveva puntigliosamente elencato nel ventiduesimo capitolo del Libro Primo di Gargantua e Pantagruele. O avrà pensato al Pentamerone di Giambattista Basile, là dove, in apertura della Giornata quarta, "fatto disegno di passare in qualche modo il tempo fino all'ora di menar le ganasce (...) cominciarono a discutere se dovessero giocare a segamattone, a capo o croce, a cucco e vento, a mazza e piuzo, alla marra, a pari e dispari, alla campana, alle norchie, ai castellucci, ad accostapalla, a coppia e solo, al tocco, alla palla o ai birilli".

Ha dell'incredibile che Collodi, Rabelais e Basile se ne siano dimenticati, e allora bisognerà consolarsi con Bontempelli, che, in Vita di Adria e i suoi figli, lo descrive così: "È il più bel gioco del mondo. Non basta fare a nascondersi, non basta fare a rincorrersi. È un gioco complicato e disteso come una rete. Ecco: c'è un centro, punto di partenza, e si chiama "la tana". Tirato a sorte il cacciatore, costui si mette con la faccia bendata contro la tana, che sarà un albero, un angolo di siepe, uno spigolo di muro; gli altri in punta di piedi vanno a nascondersi, chi qua chi là, mentre colui conta, forte e con un ritmo lento che è ben fissato dalla tradizione, fino a trentuno. Alberi, siepi, prati, muri, aiuole; e non un vivente: lui può credersi rimasto solo nel mondo. Guarda lo spazio come fa l'avvoltoio, fiuta come un leopardo, ondula come un serpente, poi si slancia. Di qualcuno dei suoi lepri sa già ove s'è appiattato: è straordinaria l'intuizione che i ragazzi hanno di questo. Ma non basta andare a scoprire il lepre nel nascondiglio. Qui il gioco si complica. Il cacciatore nella sua ricerca ha dovuto allontanarsi, ha fatto qualche svolta, non ha più la via e forse neppure la visuale diretta verso la tana. Ora il lepre scoperto balza e fugge, e se riesce a raggiungere lui la tana, il cacciatore è perduto, l'altro trionfa e può di là proclamar libero chi vuole, anche tutti: "Liberi tutti!"

Si tratta di nascondino, ovviamente, e mi piace ronzarvi attorno anche perché mi offre la possibilità di ricordare quel che ne aveva scritto la scorsa estate su l'Unità, in una serie di articoli sui giochi, Carmine De Luca, un amico prezioso che lo scorso dicembre è rimasto incantato e ci ha lasciati soli. De Luca scriveva che il gioco del nascondino probabilmente mima le azioni della caccia dei primi uomini e deriva per graduale "caduta" dal mondo adulto alla dimensione infantile.

Nascondersi, apparire e sparire, esserci e non esserci, guardare senza essere veduti danno vita a un'ebbrezza che prelude a una corsa forsennata dove l'anima prende corpo e il corpo si anima come per il cimento definitivo.

Cacciati o cacciatori che si sia, si potrà anche sperare nel vento e che sia saldo il terreno, ma è solo su se stessi che si potrà contare. Per Achab non ci sarà un'altra volta.

*Nota. Il testo “Il gioco più bello del mondo” è apparso sulla rivista école (www.educazionesostenibile.it). Non sono in grado di fornire la data esatta della pubblicazione, probabilmente tra il 1997/98. Lo scritto mi è stato gentilmente inviato da Alberto Melis che, tra l’altro, cura un bellissimo sito dedicato all’amico Giuseppe Pontremoli (http://www.giuseppepontremoli.it/). Interessante il sito dello scrittore Melis che riporto (http://www.albertomelis.it/).

I grassetti nel testo sono miei.

Nell’immagine il Logo della Fondazione dedicata a Carmine De Luca (
http://www.fondazionedeluca.it/)

(18 aprile 2008)

giochi/Anche i Romani avevano le Barbie

Anche i Romani avevano le Barbie
Carmine De Luca*

(La trottola cantata dai poeti) – Gioco antichissimo, la trottola compare, come metafora, nel XIV libro dell’“Iliade”:
“Ma mentre si ritrova, il gran Telamonio Aiace / una pietra… una alzandone, / lo colpì al petto, sopra l’orlo dello scudo, presso la gola; / la roteò come trottola, la scagliò e quella corse”.
Virgilio nel VII libro dell’“Eneide” ne canta il vorticoso roteare.
“Come sotto l’obliqua frustrata vola una trottola, che i bambini in gran giro, intorno al vuoto cortile, intenti al gioco affaticato; quella, guidata dal laccio, corre in tondo… ”.
Ovidio, invece, negli “Amori”, ne sottolinea l’uso divinatorio:
“Ella conosce le arti magiche… / sa bene quale sia il potere / del filo messo in movimento dalla / trottola che gira”.

Sarà vero che i giochi sono rimasti uguali con il trascorrere dei secoli? Che i mutamenti hanno riguardato soltanto le parti esteriori e non l'aspetto intrinseco del giocare? Sembra proprio di si. I giochi del passato più remoto e le regole si ritrovano ancora oggi inalterati. E' rimasta intatta nel tempo anche la dimensione ludica dell'uomo, la categoria dell’"homo ludens" indagata dal filosofo olandese Johan Huizinga.

Almeno per quel che riguarda l'infanzia non ha subito mutamenti significativi. Oggi due o più giocatori, piccoli o grandi, si impegnano in giochi di strategia bellica e magari replicano la dinamica della battaglia di Waterloo, utilizzando supporti da tavolo o lo schermo di un computer.

Intorno al primo secolo avanti Cristo si faceva lo stesso, ma per terra con soldatini di stagno o di argilla. Secondo la testimonianza di Orazio in una lettera all'amico Lollio: "Si dividono in barchette gli eserciti, si riproduce sotto il tuo comando la battaglia di Azio... il nemico è tuo fratello, il lago è l'Adriatico, finché l'uno o l'altro la Vittoria alata incoroni di fronte ... e loderà i tuoi giochi a pieno plauso". Il documento è riportato da Marco Fittà in Giochi e giocattoli nell'antichità, Leonardo editore, a proposito dei giochi di emulazione nell'antichità (giocare ai gladiatori, alle corse del circo, ai giudici... ).

Un altro gioco che ha attraversato i secoli mantenendosi sostanzialmente intatto è il cerchio, per il quale Fittà fornisce una ricca documentazione di testi e di immagini. La più antica raffigurazione risale agli Egizi. La civiltà greca e romana hanno tramandato un cospicuo numero di rappresentazioni del gioco. Quella certamente più interessante è l'immagine di Ganimede che gioca con il cerchio, raffigurato su un vaso risalente al quinto secolo a.C. e conservato al Louvre di Parigi. Secondo Orazio la paternità del gioco si deve ai greci: "Il giovinetto nobile... solo esperto e provato al gioco greco del cerchio... ".

Si può qui aggiungere che nel Medioevo il gioco era diffuso in tutta Italia. Nel Glossario Latino Italiano di Pietro Sella, edito dalla Biblioteca Apostolica Vaticana nel 1944, una nutrita voce dedicata ai giochi registra diverse denominazioni del gioco: rote, ad rotulam, ad rubatam vel palletum, ruelle (per questa denominazione si riporta un avviso ricavato da uno Statuto di Atri del 1531: "Ad rotulam in stradis publicis nulli ludere permittatur", a nessuno sia permesso di giocare con il cerchio per le strade pubbliche), ad rundulum seu rollum (ancora oggi nei dialetti meridionali il cerchio è detto ruollo).

La storia del cerchio è resa ancora più interessante dal materiale di cui era fatto.

Nell'antichità di norma era di bronzo e il più delle volte i bambini utilizzavano cerchioni di ruote di carro. Marziale in un epigramma parla di rota per ruota a uso di lavoro e di trochus per il cerchio da gioco. Fino a qualche decennio fa i ragazzini adottavano per i loro giochi i cerchioni da bicicletta. Quando gli adulti giocavano a ruzzola usavano una forma rotonda di legno o di metallo oppure una forma di formaggio (" ...rutularum de ligno, ferro et caseo" si legge in uno Statuto di Osimo del 1571).

Analoghe considerazioni sulla inalterabilità della dimensione ludica nel tempo si potrebbero fare per la gran parte dei giochi per bambini e per adulti, documentati da Fittà: sulle bambole e il loro corredo (la celebre bambola in avorio di Crepereia Tiophaena del 2° sec. d. c., conservata presso i Musei Capitolini di Roma, e ancora di più la bambola della vestale Cossinia, conservata presso il Museo Nazionale Romano, hanno qualcosa della Barbie di oggi: ugualmente longilinee, ugualmente snodabili per essere variamente abbigliate), sulla trottola e lo jo-jo (o gioco del rocchetto), sulle marionette e i dadi. Insomma come si giocava secoli fa, si gioca oggi. Quel che varia è invece la motivazione del gioco a seconda dell' età.

Nell'infanzia il gioco assume un carattere di naturale necessità bio-fisiologica e psicologica, serve come strumento di conoscenza del mondo e di crescita. Nell'età adulta, pur conservando la carica ricreativa, acquista un che di artificioso. L'adulto che gioca assume di norma un atteggiamento che lo porta a complicare le cose, e se non può cambiare le regole del gioco per renderle più complesse, aggira l'ostacolo e alza la posta in gioco. Anche quando semplicemente è alle prese con il trenino, ama rendere più difficile il percorso.

A lui non basta il gioco per il gioco. Mira ad un qualche obiettivo difficile, tortuoso. Per l'adulto soprattutto non ha valore "la legge della ripetizione" che, secondo Walter Benyamin ("Giocattolo e gioco" in Ombre corte, a c. di G. Agamben, Einaudi), costituisce l'anima del gioco infantile. "Con questo procedimento - aggiunge il pensatore tedesco - egli (il bambino) non riesce soltanto a superare il terrore di certe esperienze originarie, mediante lo smussamento, l'evocazione sbarazzina, la parodia, ma anche a gustare ripetutamente nel modo più intenso trionfi e vittorie... Non è già un "fare come se", ma "un fare sempre di nuovo", la trasformazione dell'esperienza più sconvolgente in un'abitudine, ciò che costituisce l'essenza del gioco".

L'essenza del gioco adulto (ogni gioco dell'adulto?) sembra essere a volte esattamente opposta: tende a esorcizzare l'abitudine e la ripetizione, a osare sempre di più, a fare esperienze sempre più sconvolgenti.

Dal gioco disinteressato, gratuito dell'infanzia si passa al gioco interessato dell'adulto, al gioco d'azzardo. Ai giochi d'azzardo nell'antichità (dadi, astragali, morra, combattimenti tra animali) Marco Fittà dedica un capitolo in cui si può leggere un monito di Giovenale: "Quando mai l'azzardo fu più grande? Oggi non si puntano / al gioco le piccole somme; tutta la cassaforte si punta! / ...Ma non è pazzia bella e buona giocarsi centomila / sesterzi e non poter cucire la tunica al / servo infreddolito?".

Anche per questo aspetto si gioca oggi, come si giocava ieri.


Nota. Carmine De Luca si è occupato più volte di giochi e giocattoli. Questo articolo dal titolo “Anche i Romani avevano le Barbie. Giochi e giocattoli non sono cambiati” è stato pubblicato su l’Unità del 9 agosto 1997. L’atteggiamento del bambino – scrive De Luca – che si balocca con soldatini e trenini è quello di chi li usa per aumentare la conoscenza. L’adulto invece si comporta in modo completamente diverso: al gratuito sostituisce l’azzardo, alla ripetizione la sfida.

Foto: Carmine De Luca (Corigliano 1943 - Pavia 1997)

(18 aprile 2008)

mercoledì 16 aprile 2008

foto/L'albero e il mare


L’albero e il mare
Foto di Giovanni Pistoia
Cliccare l’immagine per ingrandirla
aprile 2008

Il poeta dice:

Un albero secco
fuori dalla mia finestra
solitario
leva nel cielo freddo
i suoi rami bruni.
Il vento rabbioso, la neve,
il gelo non possono ferirlo.
Ogni giorno quell’albero
mi dà pensieri di gioia:
da quei rami secchi
indovino il verde a venire.

W. Ya-P’ing,
in Poesia cinese moderna,
Editori Riuniti

(16 aprile 2008)

martedì 15 aprile 2008

questo blog/informazioni

Informazioni
Giovanni Pistoia
giovannipistoia@libero.it

Benvenuti in questo blog. Questo spazio vuole essere un timido viaggio tra la magia della lettura, della scrittura e il fascino delle parole. Tra piccoli e grandi eventi culturali, con un occhio di riguardo all’editoria, alla letteratura per ragazzi, alla fantasia e alla creatività.

Questo blog non è a scopo di lucro. Ha il solo fine di promuovere libri, riviste, autori, eventi e iniziative culturali. Intende contribuire alla diffusione della cultura e della lettura.

Le copertine dei libri e delle riviste, le immagini o icone varie utilizzate sono copyright dei rispettivi autori, proprietari, titolari. Eventuali marchi registrati appartengono ai loro legittimi proprietari e possono essere riprodotti esclusivamente su loro autorizzazione. Tutto il materiale è utilizzato solo come documentazione e non ha altri fini. Eventuali articoli o altri post riportati sono opinioni personali degli autori e non possono essere riprodotti, salvo richiesta al legittimo proprietario.

Sono convinto che i saperi, le conoscenze non possono subire ostacoli o impedimenti di qualunque sorta; sono convinto che la cultura è tale se diviene strumento essenziale di crescita, e diviene strumento di crescita se condivisa.
Gli articoli, foto, disegni o altro a mia firma, cioè tutto il materiale di cui sono esclusivamente il titolare di diritti, possono essere riprodotti, parzialmente o per intero, in rete o a mezzo stampa, senza richiedere autorizzazione. Chiedo la citazione della fonte come atto di correttezza ancora prima del rispetto di una norma di legge. Sarà considerato un gesto di amicizia e di simpatia essere informato sul suo utilizzo.
In sintesi: il materiale a mia firma (e solo quello a mia firma, non potendo disporre per altri) non è soggetto a copyright.

Questo blog non è né vuole essere una testata giornalistica. Non ha alcuna testata da promuovere né l’aggiornamento avviene con regolare periodicità.

Può capitare che alcune immagini pubblicate siano tratte da internet e considerate, quindi, di pubblico dominio. Qualora l’uso di queste immagini, o di altro materiale riprodotto sul sito, possa aver violato i diritti d’autore, oppure i titolari di interessi legittimi ne desiderano, per ragioni diverse, la cancellazione, la cosa sarà fatta immediatamente appena avutone segnalazione. In sintesi: non si intende violare alcun copyright.

Se l’inserimento di qualche “link”, anziché essere apprezzato, si ritiene violi i diritti di qualcuno (copyright, o anche solo il diritto di non veder “sfruttata” da altri la propria opera) o, semplicemente, non sia gradito, è necessario solo informarmi tramite e-mail e il problema sarà immediatamente risolto.

Chi vorrà inviare notizie che possano avere un interesse per il mondo del libro, della letteratura, della lettura – soprattutto se il riferimento è ai libri per l’infanzia – , nei limiti del possibile, questo blog è a disposizione. Si chiarisce che il lavoro è del tutto volontario, totalmente gratuito. Non si ricevono contributi né da Enti né da privati.

Ringrazio anche chi vorrà inviare riviste o libri per l’eventuale segnalazione, che, al pari della recensione, non è da ritenersi un obbligo. Il materiale, quello pervenuto e altro che dovesse pervenire, non andrà ad arricchire il mio patrimonio librario ma è destinato alla Fondazione Carmine De Luca – onlus, che ha sede nel Palazzo Garopoli, a Corigliano Calabro, in provincia di Cosenza (http://www.fondazionedeluca.it/).

Ringrazio chi farà pervenire suggerimenti, segnalare errori, critiche. Il blog è aperto alla partecipazione di chiunque per contributi e/o commenti.

Se vorrai continuare a visitare questo blog anche per il futuro, sarai sempre il benvenuto.

(15 aprile 2008)

venerdì 4 aprile 2008

Racconti brevi/Caro Stefano, ti presento Carolina


Caro Stefano, ti presento Carolina
Giovanni Pistoia

Caro Stefano,
noi non ci conosciamo. In verità, io ti conosco, attraverso i tuoi libri, da un bel po’. Tu sei nato appena qualche mese prima di me. Permettimi, quindi, questo tono confidenziale, affettuoso. Qualche giorno fa, ero un po’ giù di tono, il cielo era grigio, l’umidità te la sentivi sulla pelle. Avevo voglia di leggere qualche cosa che mi tirasse su. Mi avevano consegnato, da poco, l’ultimo tuo libro, “La grammatica di Dio”. Il titolo intrigante mi incuriosiva. A parte le grammatiche in uso nelle scuole, ho sempre avuto in mente quella di Gianni Rodari, la “Grammatica della fantasia”. Sul mio tavolo ne tenevo ancora un’altra, “La grammatica è una canzone dolce” di Erik Orsenna e, ancora, altri due testi che hanno a che fare con lo scrivere, “Leggere” di Corrado Augias e “L’italiano” di Beppe Severgnini. Chi sa come sarà “La grammatica di Dio”! Stefano è bravo. Uno spasso, di certo. Avevo bisogno di un sorriso, di qualche battuta feroce, di un solletico cerebrale. Ne avevo davvero bisogno.

Il libro è una raccolta di racconti. Ma tu lo sai, lo hai scritto. Cosa vengo a dirti! È mia convinzione, però, che un volume così fatto non si debba leggere come un romanzo, che ha un inizio nelle prime pagine e finisce con le ultime. A volte, trovi la conclusione proprio nell’ultima pagina se non, addirittura, nell’ultima riga. Un libro di racconti ha tanti inizi e conclusioni quante sono le storie narrate. Quando mi capita un testo del genere impiego del tempo. Chiudo il libro dopo qualche racconto per riaprirlo dopo giorni. Perché ognuno di essi è una vicenda a sé, anche se l’autore è lo stesso. Ho sfogliato, quindi, il tuo volume con storie lunghe, corte, alcune cortissime. Per esempio “L’istante” è proprio, come dire, un fulmine, appena due paginette, sessantaquattro righe, ventuno capoversi. Il bello di un libro di racconti è che puoi aprirlo e leggerlo senza seguire un ordine prestabilito.

In ogni modo, per non farla lunga, ho cominciato dalla prima pagina, dal primo racconto, che si avvia deciso, senza preamboli: “Improvvisamente, un giorno, il signor Remo iniziò a odiare il suo cane.” Diavolo: cominciamo proprio bene! E così, ostilità fino alla fine. Il padrone del cane, acido, introverso, senza cuore, solo, più solo di un cane solo: non sopporta più il suo cane affezionato, che gli resta fedele, nonostante Remo sia diventato infedele.
Tu, caro Stefano, scrivi maledettamente bene. Sei un artista delle parole. Un giocoliere. Un prestigiatore del lessico. Le frasi, brevi e secche, ti lasciano senza respiro… e ti costringono a leggere ancora, e poi ancora. No, quelle tue pagine, quel giorno, non hanno aiutato il mio morale. Non manca l’umorismo, l’ironia diffusa. C’è tanta amara dolcezza. Non mancano le vicende allegre, eppure il protagonista principale è la solitudine. Tanti individui soli, per motivi diversi, ma soli. Mi era sfuggito il sottotitolo del libro: Storie di solitudine e allegria. È vero, sono storie di solitudine, anche se non ho trovato tanta allegria. Riprenderò certamente il volume in altri momenti, perché il tema mi interessa, e non vedo perché da te bisogna aspettarsi sempre e comunque vampate di comicità.

Sono andato avanti nella lettura fino a quando non ho incontrato Carmela “col suo bel vestito bianco”, mentre “camminava pensosa e lenta”. Che visione incantata! Poi… sono sbiancato, una linea di freddo mi ha attraversato la schiena. Qualche goccia di sudore mi ha rigato la fronte. Forse anche gli occhi si saranno un po’ inumiditi. Ho poggiato il libro sul divano, mi sono affacciato sul balcone. Avevo bisogno di aria. Non guardavo da nessuna parte. Ripensavo alla storia di Carolina, di zio Giovanni, di Sandrino, bambino malaticcio, che deve assolutamente guarire, perché da grande deve massacrare pernici e anatre, così come una gallina stermina lombrichi, così come gli uomini mangiano pollastre. Niente di strano, per l’amor di dio, come dice un mio conoscente prima di avviare l’ennesimo affondo contro i suoi amici politici, è “il racconto del mondo”. È la catena alimentare. “Uno se ne va, un altro guarisce, uno muore, un altro rifiorisce”. È, forse, anche questa la grammatica di Dio, caro Stefano? La morte di qualcuno è la vita per altri?
Ma non è questo che ha fatto del mio cuore un surgelato. Il fatto è che la vicenda da te narrata, io l’ho vissuta tante volte, tanto che ne volevo fare… un racconto. Ora non lo posso scrivere più. La storiella, tanto naturale e angosciante quanto splendidamente descritta da te, mi ha riportato ragazzo.

Abitavo con i miei in campagna. Avevamo un pollaio con galline bianche e rossastre, pulcini dal pelo giallino, qualche gallo con il petto in fuori, proprio come quello del tuo racconto: borioso, vanitoso, sbruffone. Vedevo le uova schiudersi sotto la chioccia calda, seguivo la crescita del pulcino divenire galletto pimpante o gallina per niente stupida, proprio come la tua Carmela, gallina un po’ filosofa, un po’ contestatrice dell’amara logica della catena alimentare, inventata chi sa da chi, eppure rassegnata al suo destino. Sul far del tramonto, quando il sole scompariva dietro i monti lasciando una scia rossiccia nel cielo azzurrino tappezzato da nuvole senza pensieri, le galline rientravano nel pollaio, prendevano posto sulle aste, raccoglievano la testa nelle piume, accostavano le palpebre. A me il compito di contarle, una ad una, per verificare se c’erano tutte. A volte qualcuna s’attardava, qualche appuntamento protrattosi oltre il dovuto, oppure si appollaiava dentro un cespuglio, forse per sfuggire a qualche proposta un po’ indecente di qualche gallo sconsiderato. Certo è che lì ho imparato a far di conto.

Arrivava, poi, puntuale, il giorno che “zio Giovanni”, nel caso specifico mio padre, afferrandomi la mano, mi portava verso la casa dei polli, quella che tu chiami “casetta”. Quando avveniva l’operazione, già intuivo cosa sarebbe accaduto. Superata la rete metallica, mio padre bisbigliava: “chiudi il cancello”. Gettava uno sguardo nell’accampamento, osservava con attenzione le galline, proferiva le fatidiche parole: “Dobbiamo mangiare un po’ di carne, tuo fratello ne ha bisogno. Prendiamo quella lì che non fa più uova.” Ed io: “No. Lo ha fatto ieri”. Per me tutte le galline facevano uova e, quindi, era “un peccato” prenderle. Mio padre mi guardava, sorrideva appena: “Per te anche il gallo fa le uova. Non è vero?” Mi rendevo conto che la mia era una battaglia persa, un po’ assurda. Eppure a ognuna di quelle galline avevo dato un nome. “Prendiamo Carolina… e non se ne parli più”. Per mio padre tutte le galline che dovevano finire nella pentola avevano un solo nome: Carolina.

Ecco, io avrei intitolato il mio racconto così: Carolina. Un po’ come hai fatto tu con Carmela. E ogni volta che l’affannoso rito si riproponeva, per farmi mandare giù il boccone, mio padre chiamava in causa la salute di qualcuno, e aggiungeva: “Tanto loro lo sanno che devono fare questa fine. Per loro è tutto naturale. È così.” Caro Stefano, è così? Ora la storia di Carolina l’hai scritta tu. E di questo ti ringrazio. Perché un racconto di Stefano Benni è sempre un racconto di Stefano Benni.

Foto di Luca Policastri

Nota: questo racconto è pubblicato sul numero 2 (aprile 2008) del periodico mondiversi (http://www.mondiversi.it/).

(4 aprile 2008)

giovedì 3 aprile 2008

foto/Il tronco e i suoi ornamenti


Il tronco e i suoi ornamenti.
Foto di Gaetano Gianzi.
Cliccare per ingrandire
(3 aprile 2008)