mercoledì 25 giugno 2008

Racconti brevi/Il cow boy del rione

Il cow boy del rione
Giovanni Pistoia


La luna era ancora alta quando dal colle scendeva, cavalcando un cavallo nero, avvolto in una giacca di panno ruvido, il cow boy del rione. Il cielo non prometteva niente di buono. Nuvole cupe s’addensavano sul paese, mentre raffiche di vento facevano cigolare porte e finestre malandate. Ma lui, contadino, sistemati gli arnesi del mestiere sul cavallo, che lo accompagnava paziente nei suoi movimenti, lasciava il nido e si avviava verso le campagne. Ritornava sul far della sera, al tramonto: dritto sul cavallo, a passo lento, ripercorreva il ciglio della strada asfaltata e, poi, il viottolo stretto, che s’inerpicava verso casa, lassù, sulla sommità del rione.
Così, ogni giorno. Con il vento e la pioggia, il sole e la calura dell’estate. Per anni. In compagnia di tanti altri: lasciavano il quartiere per disperdersi nei campi con cavalli, muli, asini, biciclette. Il trascorrere del tempo stravolse tutto: il rione sempre meno abitato, gli uomini emigrati, tanti altri, abbandonati quei posti, trasferitisi nella pianura. Chi era rimasto, la mattina si recava al lavoro con le auto. Di asini e muli neanche l’ombra. Le stalle chiuse o trasformate in stanze per case sempre più confortevoli.
Il vecchio contadino restò solo a essere trasportato dal suo cavallo scuro. Era diventato un cavaliere solitario, il cow boy del rione, come veniva affettuosamente chiamato. Continuava ad abitare nella stessa casa, che aveva visto crescere la sua famiglia e, accanto, la stalla, il salotto buono del prezioso amico.

Avesse o meno da lavorare, come per adempiere un rito, il cow boy lasciava prestissimo il nido e in groppa al cavallo ripercorreva il sentiero, che costeggiava un pauroso strapiombo in fondo al quale si vedeva il letto, arido, di un fiume. Il viso emaciato e bonario era diventato, col tempo, il volto stesso di un quartiere sfiorito.

Anche quella mattina dell’infarto partì come al solito. La giornata si annunciava calda e profumata. L’aria tersa permetteva sguardi lontanissimi, al di là della pianura, verso i monti e il mare. I ragazzi si rincorrevano tra le erbe lungo i viottoli, prima di recarsi a scuola.
D’improvviso, l’infarto. Qualche sasso cominciò a muoversi, come toccato da mano invisibile, poi a precipitare velocemente. Scricchiolii insistenti, rumori cupi, vistose ferite sui muri delle case. Un infarto aveva colpito il cuore di quell’antico rione, procurando frane e macerie, mentre la polvere accompagnava il rotolare di grosse pietre e calcinacci verso la strada, laggiù, sul fondo della parete scoscesa. Un fuggi fuggi generale, la paura, lo sgomento. Case cadenti e tetti inclinati. Il terrore nel cuore sotto il sole di primavera.

Il cow boy ritornò prima del previsto, quel giorno. Appena lo raggiunse la notizia, riprese le briglie del cavallo, e con un cenno ne comandò il ritorno. Lo accolse il popolo del quartiere in preda a disperazione profonda. Nessun danno alle persone. Ma tante case sventrate. Il cow boy, apparentemente impassibile, strinse a sé i familiari, gli amici, i ragazzini. La sua casa pendeva paurosamente ad un lato, una parte quasi completamente distrutta. Anche la stalla presentava squarci vistosi. Il cavaliere abbandonò le briglie del cavallo, mentre alcuni uomini della protezione civile si apprestavano a recintare con nastri colorati le zone pericolanti.

Cominciò da subito, e proseguì nei giorni successivi, l’allontanamento delle famiglie che nella frana avevano perso le case. Toccò anche al cow boy ricevere l’ordine di andare in una dimora provvisoria messa a disposizione dell’autorità del paese.
Ma un mattino due vigili urbani si presentarono dal sindaco per riferire che all’ordinanza il cow boy non aveva ottemperato, e che non lo avrebbe fatto.
“Ma è pericoloso, non può stare in quella casa!”
“È così – confermarono i vigili – ma preferisce morire tra quelle macerie… insomma, non intende traslocare… non sappiamo cosa fare…”.
“Perché?”, chiese il sindaco.
“Non intende lasciare il cavallo. Del resto anche quella stalla sta venendo giù”.
“Bisogna - aggiunse il sindaco - trovare una sistemazione anche al cavallo…”
“Ma non può certamente portarselo con sé nella sua nuova abitazione…”, rispose un po’ incredulo il vigile paffuto.
“Certamente no - confermò il collega - ma posso suggerire una soluzione temporanea…”.
“Prego”, disse il sindaco, che aveva bisogno proprio di una proposta concreta.
“Il Comune ha un vecchio edificio abbandonato, potrebbe essere utilizzato come stalla…”
“Va benissimo - replicò il sindaco - comunicate questa proposta al cow boy, si tranquillizzerà un po’, e tenetemi informato.”
Il cavaliere, più solitario che mai, accolse la soluzione con soddisfazione. La sera accompagnava il cavallo nel nuovo ricovero e, poi, rientrava nella sua nuova dimora.

Il sindaco era in riunione nella sua stanza, quando una delegazione di uomini e donne, accompagnata da alcuni vigili, premevano per essere ricevuti: da alcuni giorni il cow boy era ritornato nella sua vecchia dimora portandosi con sé anche il cavallo. Parenti e amici invocavano il sindaco per fare qualcosa: “Ogni notte che passa lì dentro è pericoloso. Non sente ragione… dice che non può dormire lontano dal suo cavallo… parlateci voi… chissà…”.
Il sindaco, esitante, riuscì a dire: “Ditegli che lo aspetto domani…”

Il cavallo martellava nervosamente con lo zoccolo destro l’asfalto arso dal sole. La lunga criniera s’agitava, come ad accompagnare il ritmo della gamba. La testa s’allungava quasi a voler lambire la camicia grigio-verde del suo cow boy. Quel cavaliere senza età, alto e magro, con baffi grigi e capelli bianchi e scompigliati, tormentava tra le mani un cappello largo e sgualcito. Osservava il suo interlocutore, aspettava un cenno. Ma l’uomo, ingabbiato in un abito blu, restava in silenzio, mentre cercava, con le dita della mano, di allargarsi il nodo della cravatta. L’aria era calda. Il sole picchiava forte su quella piccola montagnola costellata di edifici anonimi. Il cow boy, quasi a voler sollecitare una risposta, un gesto, una parola d’intesa, allungava le mani, magre e callose, verso l’interlocutore, che lo guardava, mentre il cavallo, con le briglie legate a una inferriata a pochi passi da lui, fremeva.
“Andiamo a prenderci qualche cosa di fresco”, disse l’uomo con la cravatta, interrompendo un silenzio che durava da tempo, e s’avviò verso il bar vicino. Il cavaliere strofinò le mani sudate sui jeans e si apprestava ad accogliere l’invito, quando vide il suo interlocutore fermarsi e, facendo segno verso il cavallo, aggiungere: “E a lui… non lo porti?”
Sul volto del cow boy comparve un largo sorriso, fece di quel cappello una sfera, che passò da una mano all’altra, incrociò gli occhi grandi e trasparenti del cavallo e, con l’espressione dell’uomo più sereno del mondo, seppe solo dire: “Dovete capirmi, signor sindaco, siamo stati sempre insieme…”

(Ogni riferimento a fatti e persone è del tutto casuale)

Nota: questo racconto è pubblicato sul numero 4 del periodico mondiversi (giugno-luglio 2008)

(25 giugno 2008)

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