venerdì 4 aprile 2008

Racconti brevi/Caro Stefano, ti presento Carolina


Caro Stefano, ti presento Carolina
Giovanni Pistoia

Caro Stefano,
noi non ci conosciamo. In verità, io ti conosco, attraverso i tuoi libri, da un bel po’. Tu sei nato appena qualche mese prima di me. Permettimi, quindi, questo tono confidenziale, affettuoso. Qualche giorno fa, ero un po’ giù di tono, il cielo era grigio, l’umidità te la sentivi sulla pelle. Avevo voglia di leggere qualche cosa che mi tirasse su. Mi avevano consegnato, da poco, l’ultimo tuo libro, “La grammatica di Dio”. Il titolo intrigante mi incuriosiva. A parte le grammatiche in uso nelle scuole, ho sempre avuto in mente quella di Gianni Rodari, la “Grammatica della fantasia”. Sul mio tavolo ne tenevo ancora un’altra, “La grammatica è una canzone dolce” di Erik Orsenna e, ancora, altri due testi che hanno a che fare con lo scrivere, “Leggere” di Corrado Augias e “L’italiano” di Beppe Severgnini. Chi sa come sarà “La grammatica di Dio”! Stefano è bravo. Uno spasso, di certo. Avevo bisogno di un sorriso, di qualche battuta feroce, di un solletico cerebrale. Ne avevo davvero bisogno.

Il libro è una raccolta di racconti. Ma tu lo sai, lo hai scritto. Cosa vengo a dirti! È mia convinzione, però, che un volume così fatto non si debba leggere come un romanzo, che ha un inizio nelle prime pagine e finisce con le ultime. A volte, trovi la conclusione proprio nell’ultima pagina se non, addirittura, nell’ultima riga. Un libro di racconti ha tanti inizi e conclusioni quante sono le storie narrate. Quando mi capita un testo del genere impiego del tempo. Chiudo il libro dopo qualche racconto per riaprirlo dopo giorni. Perché ognuno di essi è una vicenda a sé, anche se l’autore è lo stesso. Ho sfogliato, quindi, il tuo volume con storie lunghe, corte, alcune cortissime. Per esempio “L’istante” è proprio, come dire, un fulmine, appena due paginette, sessantaquattro righe, ventuno capoversi. Il bello di un libro di racconti è che puoi aprirlo e leggerlo senza seguire un ordine prestabilito.

In ogni modo, per non farla lunga, ho cominciato dalla prima pagina, dal primo racconto, che si avvia deciso, senza preamboli: “Improvvisamente, un giorno, il signor Remo iniziò a odiare il suo cane.” Diavolo: cominciamo proprio bene! E così, ostilità fino alla fine. Il padrone del cane, acido, introverso, senza cuore, solo, più solo di un cane solo: non sopporta più il suo cane affezionato, che gli resta fedele, nonostante Remo sia diventato infedele.
Tu, caro Stefano, scrivi maledettamente bene. Sei un artista delle parole. Un giocoliere. Un prestigiatore del lessico. Le frasi, brevi e secche, ti lasciano senza respiro… e ti costringono a leggere ancora, e poi ancora. No, quelle tue pagine, quel giorno, non hanno aiutato il mio morale. Non manca l’umorismo, l’ironia diffusa. C’è tanta amara dolcezza. Non mancano le vicende allegre, eppure il protagonista principale è la solitudine. Tanti individui soli, per motivi diversi, ma soli. Mi era sfuggito il sottotitolo del libro: Storie di solitudine e allegria. È vero, sono storie di solitudine, anche se non ho trovato tanta allegria. Riprenderò certamente il volume in altri momenti, perché il tema mi interessa, e non vedo perché da te bisogna aspettarsi sempre e comunque vampate di comicità.

Sono andato avanti nella lettura fino a quando non ho incontrato Carmela “col suo bel vestito bianco”, mentre “camminava pensosa e lenta”. Che visione incantata! Poi… sono sbiancato, una linea di freddo mi ha attraversato la schiena. Qualche goccia di sudore mi ha rigato la fronte. Forse anche gli occhi si saranno un po’ inumiditi. Ho poggiato il libro sul divano, mi sono affacciato sul balcone. Avevo bisogno di aria. Non guardavo da nessuna parte. Ripensavo alla storia di Carolina, di zio Giovanni, di Sandrino, bambino malaticcio, che deve assolutamente guarire, perché da grande deve massacrare pernici e anatre, così come una gallina stermina lombrichi, così come gli uomini mangiano pollastre. Niente di strano, per l’amor di dio, come dice un mio conoscente prima di avviare l’ennesimo affondo contro i suoi amici politici, è “il racconto del mondo”. È la catena alimentare. “Uno se ne va, un altro guarisce, uno muore, un altro rifiorisce”. È, forse, anche questa la grammatica di Dio, caro Stefano? La morte di qualcuno è la vita per altri?
Ma non è questo che ha fatto del mio cuore un surgelato. Il fatto è che la vicenda da te narrata, io l’ho vissuta tante volte, tanto che ne volevo fare… un racconto. Ora non lo posso scrivere più. La storiella, tanto naturale e angosciante quanto splendidamente descritta da te, mi ha riportato ragazzo.

Abitavo con i miei in campagna. Avevamo un pollaio con galline bianche e rossastre, pulcini dal pelo giallino, qualche gallo con il petto in fuori, proprio come quello del tuo racconto: borioso, vanitoso, sbruffone. Vedevo le uova schiudersi sotto la chioccia calda, seguivo la crescita del pulcino divenire galletto pimpante o gallina per niente stupida, proprio come la tua Carmela, gallina un po’ filosofa, un po’ contestatrice dell’amara logica della catena alimentare, inventata chi sa da chi, eppure rassegnata al suo destino. Sul far del tramonto, quando il sole scompariva dietro i monti lasciando una scia rossiccia nel cielo azzurrino tappezzato da nuvole senza pensieri, le galline rientravano nel pollaio, prendevano posto sulle aste, raccoglievano la testa nelle piume, accostavano le palpebre. A me il compito di contarle, una ad una, per verificare se c’erano tutte. A volte qualcuna s’attardava, qualche appuntamento protrattosi oltre il dovuto, oppure si appollaiava dentro un cespuglio, forse per sfuggire a qualche proposta un po’ indecente di qualche gallo sconsiderato. Certo è che lì ho imparato a far di conto.

Arrivava, poi, puntuale, il giorno che “zio Giovanni”, nel caso specifico mio padre, afferrandomi la mano, mi portava verso la casa dei polli, quella che tu chiami “casetta”. Quando avveniva l’operazione, già intuivo cosa sarebbe accaduto. Superata la rete metallica, mio padre bisbigliava: “chiudi il cancello”. Gettava uno sguardo nell’accampamento, osservava con attenzione le galline, proferiva le fatidiche parole: “Dobbiamo mangiare un po’ di carne, tuo fratello ne ha bisogno. Prendiamo quella lì che non fa più uova.” Ed io: “No. Lo ha fatto ieri”. Per me tutte le galline facevano uova e, quindi, era “un peccato” prenderle. Mio padre mi guardava, sorrideva appena: “Per te anche il gallo fa le uova. Non è vero?” Mi rendevo conto che la mia era una battaglia persa, un po’ assurda. Eppure a ognuna di quelle galline avevo dato un nome. “Prendiamo Carolina… e non se ne parli più”. Per mio padre tutte le galline che dovevano finire nella pentola avevano un solo nome: Carolina.

Ecco, io avrei intitolato il mio racconto così: Carolina. Un po’ come hai fatto tu con Carmela. E ogni volta che l’affannoso rito si riproponeva, per farmi mandare giù il boccone, mio padre chiamava in causa la salute di qualcuno, e aggiungeva: “Tanto loro lo sanno che devono fare questa fine. Per loro è tutto naturale. È così.” Caro Stefano, è così? Ora la storia di Carolina l’hai scritta tu. E di questo ti ringrazio. Perché un racconto di Stefano Benni è sempre un racconto di Stefano Benni.

Foto di Luca Policastri

Nota: questo racconto è pubblicato sul numero 2 (aprile 2008) del periodico mondiversi (http://www.mondiversi.it/).

(4 aprile 2008)

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