domenica 21 ottobre 2007

Racconti brevi/Quando al mattino il cielo è cupo

Quando al mattino il cielo è cupo
di Giovanni Pistoia


In un paese lontano lontano, tanto lontano da qui, un’ombra gigante e grigia, inquietante e silenziosa, a volte, copre il cielo e le nuvole, il sole del mattino e quello della sera. Avvolge gli abitanti, che, cupi e senza fiato, aspettano che quella grande cappa possa svanire nel cielo limpido, sotto il sole che riscalda, oppure essere risucchiata dal mare spumeggiante le cui onde sembrano lanciare un grido di dolore rivolto alla luna taciturna.

Un giorno, un giorno di tanto tempo fa, in quella località, da tanti mai sentita, apparve un uomo venuto da altre terre, parlava una lingua sconosciuta, negli occhi cerulei un altro mondo, nel cuore, certamente, tanti affetti. La barba grigia e incolta non nascondeva del tutto il pallore del suo viso emaciato e senza età. Non aveva un lavoro, viveva di espedienti, così diceva la gente che lo conosceva. Cercava un tozzo di pane e qualche buon samaritano lo accontentava. A volte non chiedeva, eppure qualcuno pensava ugualmente a quell’uomo, che presto impararono a chiamare Boris. Ma niente di più. Non aveva una fissa dimora, affermavano gli abitanti, che avevano, invece, una fissa dimora.
Il suo passo era incerto, zoppicava vistosamente. Un bastone nodoso, raccolto chi sa dove, era il suo indispensabile strumento di viaggio. Senza quel miracoloso bastone il suo andare sarebbe stato alquanto impossibile. In una mano il bastone, nell’altra la solita busta di plastica, il suo patrimonio. Parlava piano, forse, per timidezza, forse per scandire nel miglior modo possibile il vocabolario, piuttosto povero, del nuovo luogo di dimora. Ma si faceva capire. Del resto aveva poche cose da dire a chi aveva poca voglia di ascoltare.
Lo ascoltavano, invece, e lo capivano benissimo, i bambini, che, spesso, lo circondavano e lo accompagnavano nel suo spostarsi da un portone ad un altro, da una panchina ad un’altra. Ascoltava i bambini e i bambini ascoltavano lui. All’inizio non fu facile questo approccio. La gente del posto era diffidente. Non conosceva quell’uomo spuntato un mattino d’estate. Approdato in quel remoto angolo di mondo, forse venuto dal mare, su mezzi di fortuna, certamente non da solo. I genitori non volevano che i loro ragazzi frequentassero quel barbone, così come vengono normalmente chiamati gli ultimi del mondo. Non si affidano i propri figli a degli sconosciuti, specialmente se questi parlano un’altra lingua, hanno un altro colore di pelle e, soprattutto, se sono dei morti di fame! Ma col tempo un po’ tutti cominciarono a conoscere Boris.
Era buono Boris. Non avrebbe mai fatto male a una mosca. E quando qualche ragazzaccio lo prendeva in giro, Boris lo fissava con occhio paterno, raccoglieva i suoi stracci, si appoggiava, con movimenti lenti e a fatica, al bastone della vita, e si allontanava. Non voleva disturbare. E col tempo i bambini e i ragazzini erano diventati un po’ i suoi amici, che lo accompagnavano e, spesso, lo aiutavano e lo difendevano anche da altri ragazzi un po’ bulli. Uno in particolare era il suo amico prediletto. Si chiamava, e si chiama, Francesco, ma per tutti era il francese, perché nato in Francia da genitori emigrati in quel paese. Francesco voleva bene a Boris, gli era simpatico. E la sera, prima del rientro a casa, Francesco passava a salutare Boris, lasciandolo sempre in posti diversi, quasi sempre senza un tetto, senza un letto.
E così avvenne anche quella sera d’autunno, con un cielo che non prometteva niente di buono, quando Boris, più stanco del solito, cascò, sfinito, su quella panchina di ferro, dura e fredda.

Quella sera, una delle tante sere di quell’uomo venuto dal nulla, Boris si raggomitolò, chiuso nei suoi vestiti da mendicante, su quella panchina per trascorrervi un’altra notte, quasi nascosto agli sguardi indiscreti. Cosa pensava quella sera Boris, mentre sistemava la sua gamba malconcia su quella panchina? Al suo passato? Boris avrà pure avuto un passato, dei genitori che lo hanno messo al mondo, una madre che certamente lo ha partorito. Avrà avuto una famiglia tutta sua? Una moglie? Dei figli? E ora, dove erano? Erano vivi, oppure no? Perché Boris si era ridotto così? Qualcuno o qualcosa o la miseria di un popolo lo avevano costretto ad essere un poveraccio capitato, chi sa come e con quali speranze, in un paese tanto lontano dal suo e che certamente non aveva mai sentito nominare. Chi sa cosa pensava quella sera Boris, mentre si nascondeva nei suoi stracci incolori!

Ma qualcun altro, nel buio della notte, aveva ben altri pensieri e veniva assalito da demoni oscuri. Si portò vicino a Boris e decise di divertirsi un po’ con quel diavolo di un uomo senza storia, senza patria, forse neanche un uomo ma un accidente catapultato da qualche onda bizzarra.
Il bastone della vita di Boris divenne il bastone della morte. Qualcuno colpì un corpo già martoriato. Fu colpito Boris, Boris fu colpito. Boris non poté difendersi, Boris non poté scappare, Boris fu colpito, fu colpito Boris da un bastone, da quel bastone nodoso, le ossa di Boris scricchiolarono, la testa, la povera testa di Boris fu colpita, fu colpita la povera testa di Boris, Boris morì, morì Boris. Boris morì.

La luna, quella notte, vide. Vide Boris morire.

Il mattino successivo qualcuno vide, a terra, un cencio. Capì. Il vento della notte aveva asciugato quel corpo senza respiro. Grumi di sangue avevano abbeverato, quella notte, la terra salmastra.

In quel lontano lontano, tanto lontano paese, tutto continuò serenamente, come se niente fosse accaduto. In fondo, in fondo, cosa era successo?
Tacque il paese. Qualcuno, in verità, disse qualcosa. Qualche vocina, pubblicamente, si fece sentire, timidamente. Qualcun altro usò un tono di voce più forte, più determinato ma in privato.
Il paese tacque. Tacquero le campane della pietà, tacquero le campane della solidarietà, tacquero le campane della politica, tacquero le campane istituzionali. Tacquero gli abitanti delle fisse dimore, tacquero anche i senza fissa dimora. Tacquero, un po’ nascondendo il viso, i genitori dei tanti bambini, amici di Boris, che chiedevano, chiedevano, chiedevano. Tacquero i genitori di Francesco, quando Francesco li interrogava, guardandoli negli occhi, senza fare domande.

In quel lontano lontano, tanto lontano paese, un’ombra gigante e grigia, inquietante e silenziosa, a volte, copre il cielo e le nuvole, il sole del mattino e quello della sera. Avvolge gli abitanti, che, cupi e senza fiato, sperano che quella grande cappa possa svanire nel cielo limpido, sotto il sole che riscalda, oppure essere risucchiata dal mare spumeggiante le cui onde sembrano lanciare un grido di dolore rivolto alla luna taciturna.
C’è chi dice che quell’ombra grande quanto un grande paese è l’ombra di Boris, di Boris che non trova pace e aspetta, aspetta che qualcuno in quel paese si ricordi di lui, che non dimentichi la sua morte avvenuta in una notte assurda su una panchina di ferro sotto i colpi di un bastone nodoso, mentre il paese dormiva riscaldato da buone coperte.
Aspetta che il paese non taccia più, che il paese, che aveva cominciato ad amare, sciolga le sue campane al vento e prenda a parlare, perché non capiti più a nessuno quello che è accaduto a lui, perché i tanti Boris vengano ascoltati.
E così da quel giorno, raccontano i bambini di quel lontano paese, quando al mattino vedono il cielo cupo e il sole nascosto sotto un velo minaccioso, dicono che è Boris, che ricorda ai grandi che è tempo di svegliarsi e a loro, ai bambini ed ai ragazzi, di prendere per mano il paese e farlo volare, come vola un aquilone.

(21 ottobre 2007)


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